Cesare Pavese – Pensieri di Deola [1932] Lavorare stanca – Firenze, Edizioni di Solaria, 1936
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Jean-Philippe Charbonnier Jeune femme au café – Paris, 1960
Nino Rota – Suite dal balletto La Strada Orchestra filarmonica di San Pietroburgo Direttore: Federico Mondelci
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Deola passa il mattino seduta al caffè e nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tutti sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno neanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino. Fin che è stata in pensione, ha dovuto dormire a quest’ora per rifarsi le forze: la stuoia sul letto la sporcavano con le scarpacce soldati e operai, i clienti che fiaccan la schiena. Ma, sole, è diverso: si può fare un lavoro piú fine, con poca fatica. Il signore di ieri, svegliandola presto, l’ha baciata e condotta con sé alla stazione a augurargli buon viaggio (mi fermerei, cara, a Torino con te, se potessi). È intontita, ma fresca, stavolta, e le piace esser libera, Deola, e bere il suo latte e mangiare brioches. Stamattina è una mezza signora e, se guarda i passanti, fa solo per non annoiarsi. A quest’ora in pensione si dorme e c’è puzza di chiuso – la padrona va a spasso – è da stupide stare là dentro. Per girare la sera i locali, ci vuole presenza e in pensione, a trent’anni, quel po’ che ne resta, si è perso. Deola siede mostrando il profilo a uno specchio e si guarda nel fresco del vetro. Un po’ pallida in faccia: non è il fumo che stagni. Corruga le ciglia. Ci vorrebbe la voglia che aveva Marí, per durare in pensione (perché, cara donna, gli uomini vengon qui per cavarsi capricci che non glieli toglie né la moglie né l’innamorata) e Marí lavorava instancabile, piena di brio e godeva salute. I passanti davanti al caffè non distraggono Deola che lavora soltanto la sera, con lente conquiste nella musica del suo locale. Gettando le occhiate a un cliente o cercandogli il piede, le piaccion le orchestre che la fanno parere un’attrice alla scena d’amore con un giovane ricco. Le basta un cliente ogni sera e ha da vivere. (Forse il signore di ieri mi portava davvero con sé). Stare sola, se vuole, al mattino, e sedersi al caffè. Non cercare nessuno.
Gente che non capisce “Lavorare stanca” è una raccolta di poesie dello scrittore Cesare Pavese pubblicata nel 1936.
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Nino Rota, musica da “Le Notti di Cabiria”
L’immagine del libro è di proprietà di: Hassan Bogdan Pautàs Cesare Pavese, Lavorare stanca, seconda edizione Einaudi del 1943. / @PaveseCesare
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Sotto gli
alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest’ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l’erba.
Gella sa che
sua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile rinchiuso
tra muraglie, e la gente s’affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e spaziando dal treno,
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezza di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.
Gella è
stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta e non muoversi più.
Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli, che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell’erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l’erba, perché da trent’anni
l’ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.
Anche Gella
vorrebbe restarsene, sola, nei prati,
ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba
e magari nel fango e mai più ritornare in città.
Non far nulla, perché non c’è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre strappare soltanto le foglie più verdi
e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città
non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire
e sorride al pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne
non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.
Cesare Pavese – La forza primitiva [6 novembre 1928] da “Blues della grande città“, in Cesare Pavese Le poesie A cura di Mariarosa Masoero Introduzione di Marziano Guglielminetti Einaudi 1998
Lettura di Luigi Maria Corsanico
György Ligeti – Études, Book 3: No. 15, White on White Piano, Kei Takumi
Umberto Boccioni La città che sale, bozzetto, 1910 Museum of Modern Art, New York
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Cesare Pavese – La forza primitiva I.
Tutto il cielo è di fumo grave del fumo-nebbia di novembre sulla grande città. Ma non solo novembre è disceso sul mondo. Nelle vallate rigide dei viali gli alberi neri e bruni s’arruginiscono tra i fili e il fumo. Non han piú linfe gli alberi, il loro antico palpito s’è contratto e scomparso. Nella penombra della grande sera si ergono per le vie vivi di un’altra vita. E accendono tra i rami irrigiditi fiori enormi e spettrali, i freddi fiori elettrici che sbocciano sul mondo. Le alte case affiancate li riscontrano immobili, anch’esse coi grandi occhi allucinati.
II. Non soltanto novembre è disceso sul mondo. La stessa vita che possiede gli alberi e le case geometriche s’incrocia e urla sicura in mezzo ad esse. Sotto la forza immobile della natura di pietra e di luci infuria un vortice che non è di acque, non di vento o di fuoco, ma, nella nebbia, vibra della stessa passione che s’accende nei grandi fiori elettrici. Alito rosso, anelito d’acciaio che si dibatte e rugge, ma perfetto corre per la sua via. E gli uomini, nel freddo, come gli alberi, passano dentro il vortice vivi di un sangue saldo e irresistibile. Sulla città qualcosa ha vinto il mondo, non soltanto novembre. [6 novembre 1928]
Cesare Pavese The cats will know Edizione di riferimento: Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Giulio Einaudi editore, Torino 1951
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Paolo Conte – “Razmataz”, Guitars
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Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole –
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno, viso di primavera; e la pioggia leggera, l’alba color giacinto, che dilaniano il cuore di chi più non ti spera, sono il triste sorriso che sorridi da sola. Ci saranno altri giorni, altre voci e risvegli. Soffriremo nell’alba, viso di primavera.
CESARE PAVESE (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950)
IL MESTIERE DI VIVERE Diario, 22 giugno – 18 agosto 1950 Lettura di Luigi Maria Corsanico
CESARE PAVESE IL MESTIERE DI VIVERE 1935-1950 1952 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino
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Marcello Comitini, 27 agosto 2020
Nel ritratto che Natalia Ginzburg traccia nel suo libro “Lessico Familiare” del 1963, gli ultimi gesti di Pavese sono ricordati come quelli di “uno che prepara e predispone il corso di una passeggiata o una serata.” E subito dopo precisa che “In lui la paura era più grande che in noi: era in lui la paura, il vortice dell’imprevisto e dell’inconoscibile, che sembrava orrendo alla lucidità del suo pensiero”. Leggendo con tono asettico le sue opere, vi scorgeremmo anche noi quel sorriso maligno che la Ginzburg scopre più volte sul viso di Pavese.
Quel sorriso che Fernanda Pivano ( amata da Pavese senza esserne corrisposto) in un articolo sul Corriere della Sera del 25/8/2000 definisce tuttavia carico di “humour brusco”. La scrittrice inoltre ricorda la vita di Pavese come la lotta di un uomo concreto contro la disperazione, ma anche di uno scrittore che ha il gusto della narrazione e che annota il 12 aprile 1941: «Uno dei meno osservati gusti umani è quello di prepararsi degli eventi a scadenza, di organizzarsi un gruppo di accadimenti che abbiano una costruzione, una logica, un principio e una fine. ».
Le annotazioni che Pavese scrive sul suo diario, soprattutto negli ultimi giorni, sono e rimangono la testimonianza intima di una vita, sia di uno scrittore o di uno scienziato, che tesse con lucidità e determinazione la volontà di morire.
Di fronte al buio che la morte, o anche solo l’idea, porta con sé, credo che nessuno possa fare a meno di commuoversi considerando lo stato esistenziale e psicologico di chi decide di non continuare più una vita che gli ha mostrato e gli mostra una serie infinita di sconfitte.
Ed è questo il tono con cui Luigi rivolge a noi questa lettura. Un tono meditato e meditativo che vuole aprire con voce pensosa, uno spiraglio di pietà per un gesto ignorato prima, incomprensibile poi ai più, e spesso ritenuto da costoro inaccettabile.
Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Edizione di riferimento: Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Giulio Einaudi editore, Torino 1951
Voce recitante e pianoforte : Luigi Maria Corsanico (Sweet Revenge, Ryuichi Sakamoto)
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Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese Vendrá la muerte y tendrá tus ojos Antología póstuma (1951)
Voz y piano : Luigi Maria Corsanico (Sweet Revenge, Ryuichi Sakamoto)
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Vendrá la muerte y tendrá tus ojos
—esta muerte que nos acompaña
de la mañana a la noche, insomne,
sorda, como un viejo remordimiento
o un vicio absurdo. Tus ojos
serán una palabra hueca,
un grito ahogado, un silencio.
Así los ves cada mañana
cuando a solas te inclinas
hacia el espejo. Oh querida esperanza,
ese día también sabremos
que eres la vida y la nada.
Para todos tiene la muerte una mirada.
Vendrá la muerte y tendrá tus ojos.
Será como dejar un vicio,
como mirar en el espejo
asomarse un rostro muerto,
como escuchar un labio cerrado.
Nos hundiremos en el remolino, mudos.
Cesare Pavese The night you slept Edizione di riferimento: Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Giulio Einaudi editore, Torino 1951 Voce recitante e pianoforte: Luigi Maria Corsanico
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Anche la notte ti somiglia, la notte remota che piange muta, dentro il cuore profondo, e le stelle passano stanche. Una guancia tocca una guancia ‒ è un brivido freddo, qualcuno si dibatte e t’implora, solo, sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba, povero cuore che sussulti. O viso chiuso, buia angoscia, febbre che rattristi le stelle, c’è chi come te attende l’alba scrutando il tuo viso in silenzio. Sei distesa sotto la notte come un chiuso orizzonte morto. Povero cuore che sussulti, un giorno lontano eri l’alba. 4 aprile ’50