Fernando Pessoa IL LIBRO DELL’ INQUIETUDINE DI BERNARDO SOARES Frammento “Depois que os últimos pingos de chuva começaram a tardar…” 25-12-1929 Livro do Desassossego por Bernardo Soares.Vol.I. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982
Traduzione di Piero Ceccucci e Orietta Abbati Lettura di Luigi Maria Corsanico
Dopo che le ultime gocce di pioggia hanno cominciato ad attardarsi lungo il declivio dei tetti, e nel centro lastricato della strada l’azzurro del cielo ha lentamente cominciato a rispecchiarsi, il rumore dei veicoli ha assunto un altro canto, più alto e allegro, e si è udito il dischiudersi di finestre incontro al sole che riappariva. Allora, là in fondo, lungo la via stretta, vicino all’angolo della strada, si è sentito irrompere il richiamo alto del primo venditore di biglietti della lotteria, e i chiodi infilati nelle casse della bottega di fronte hanno cominciato a riverberare nello spazio chiaro. Era un incerto giorno festivo, legale ma di scarsa osservanza. C’era riposo e lavoro allo stesso tempo, e io non avevo niente da fare. Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere. Passeggiavo da un lato all’altro della stanza, tutto immerso in sogni senza nesso e possibilità – gesti che avevo dimenticato di fare, ambizioni impossibili realizzate senza una direttrice, conversazioni ferme e continue che, se fossero avvenute, sarebbero state. E in questo vaneggiare privo di grandezza e di calma, in questo attardarmi senza speranza e fine, consumavo sui miei passi la mattinata libera e le mie parole alte, dette a bassa voce, risuonavano multiple nel chiostro del mio semplice isolamento. La mia figura umana, se la esaminavo dall’esterno con attenzione, mi appariva ridicola come è ridicola ogni cosa umana nell’intimità. Avevo indossato, sopra gli indumenti semplici del sonno finito, un vecchio cappotto, che mi torna utile in queste veglie mattutine. Le mie vecchie pantofole erano rotte, soprattutto quella del piede sinistro. E, con le mani nelle tasche del paltò postumo, percorrevo il viale della mia stanza corta a passi lunghi e decisi, compiendo con inutile vaneggiare un sogno uguale a quello di ogni persona. Attraverso il fresco aperto della mia unica finestra, si udivano ancora cadere dai tetti le grosse gocce, accumulatesi per la pioggia passata. Ancora, vago, si avvertiva il fresco della pioggia avvenuta. Il cielo, però, era di un azzurro ammaliante, e le nuvole che restavano della pioggia vinta o stanca cedevano, ritirandosi al di sopra dei lati del castello, legittimamente il passo del cielo tutto. Era l’occasione per essere allegro. Ma mi pesava un qualcosa, un’ansia sconosciuta, un desiderio indefinito, neanche ordinario. Rallentava, forse, la sensazione di essere vivo. E quando mi sono affacciato alla finestra altissima, sulla via che ho guardato senza vederla, mi sono sentito improvvisamente uno di quegli stracci umidi utilizzati per pulire le cose sporche, e che si appendono alla finestra ad asciugare, ma che si dimenticano, attorcigliati, sul parapetto che macchiano lentamente.
FERNANDO PESSOA IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE A cura di Valeria Tocco OSCAR MONDADORI
Oggi mi sono svegliato molto presto… Acordei hoje muito cedo…[1929] Pessoa, Fernando, 1888-1935. Livro do Desassossego por Bernardo Soares.Vol.I. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982.
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Frammenti L.M.Corsanico, piano
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Oggi mi sono svegliato molto presto, in un impeto confuso, e mi sono alzato lentamente dal letto, oppresso da un tedio incomprensibile. Non era stato causato da nessun sogno; nessuna realtà avrebbe potuto causarlo. Era un tedio assoluto e completo, ma fondato su qualcosa. Nel profondo oscuro della mia anima, invisibili, combattevano forze sconosciute e il mio essere era il campo di battaglia, e tutto me stesso tremava per lo scontro ignoto. Una nausea fisica verso la vita intera era sorta al mio risveglio. Un orrore di dover vivere si era alzato con me dal letto. Tutto mi è parso vuoto e ho avuto la fredda impressione che non esiste soluzione per nessun problema. Un’enorme inquietudine mi faceva fremere a ogni piccolo gesto. Ho avuto timore non di impazzire, ma di venire inghiottito da quel pazzo posto. Il mio corpo era un grido latente. Il mio cuore batteva come se singhiozzasse. A passi lunghi e falsi, che invano avevo cercato di rendere diversi, ho percorso, scalzo, la lunghezza della piccola stanza e la diagonale vuota della stanza interna, con la porta sull’angolo che dà sul corridoio. Con movimenti incoerenti e imprecisi ho toccato le spazzole sopra il comò, ho spostato una sedia, e una volta ho pure sbattuto la mano ondeggiante contro il ferro ruvido dei piedi del letto inglese. Ho acceso una sigaretta che ho fumato senza rendermene conto, e solo quando ho visto cadere la cenere sul cuscino – ma come è possibile, se non mi ci ero chinato sopra? – ho compreso di essere posseduto, o una cosa simile, nel mio essere, anche se non nel vero senso della parola, e che la coscienza che avrei dovuto avere di me si era alternata all’abisso. Ho ricevuto l’annuncio del mattino, la poca luce fredda che getta un vago azzurro bianco sull’orizzonte che si rivela, come un bacio di gratitudine delle cose. Perché quella luce, quel giorno reale, mi liberava, mi liberava da non so cosa, porgeva il braccio alla mia vecchiaia ignota, accarezzava la mia infanzia posticcia, proteggeva il riposo mendico della mia sensibilità dilagante. Ah, che mattino è mai questo, che mi risveglia di fronte alla stupidità della vita e alla sua grande tenerezza! Quasi piango vedendo rischiararsi davanti a me, sotto di me, la mia vecchia strada stretta, e quando la serranda della drogheria all’angolo si intravede già nel suo marrone scuro alla luce che inizia a traboccare, il mio cuore prova un sollievo da fiaba di fate reali e comincia a conoscere la sicurezza di non sentirsi. Che mattino, questa angoscia! E quali ombre si allontanano? E quali misteri ci sono stati? Nulla: il suono del primo tram è come un fiammifero che illumina l’oscurità dell’anima e il calpestio forte del mio primo passante rappresenta la realtà concreta che mi esorta, con voce amichevole, a non stare così.
M’immagino Pessoa che scrive con la pipa tra le labbra nella sua confortevole stanza, e mentre scrive pensa che tutto ciò che gli sta intorno non esiste. Ma è lui che lo cancella e nel cancellarlo si fa il dono del vuoto, che gli permette di vedersi nudo e indifeso e spesso offeso dalla realtà da cui si sente aggredito. Non è la realtà che lo aggredisce ma quella condizione, spesso maledetta, che condanna tutti i poeti a vedere, con occhi esasperati dalla propria sensibilità, ogni cosa incastonata nella propria transitorietà, destinata a finire, e che nulla di ciò che li circonda è puro, di quella purezza che solo un animo sensibile desidera al di là di ogni possibile realtà. Quando poi l’idea di Dio e della sua eternità immutabile, diventano per il poeta la chiave che spalanca la porta del sognare e del piangere, allora l’uomo-poeta si accorge del proprio bisogno più intimo di sentirsi orfano per poter accrescere il sogno di essere amato. Ma anche per ipotizzare un universo talmente immenso da contenere indistintamente tutti i propri sogni e i propri incubi, e per l’eternità smarrirvisi. Questo prendere coscienza della propria contraddittorietà, crea una frattura – come la sente Pessoa – tra l’uomo che ogni giorno gioca con i suoi gingilli (tecnologici, hobbistici, idealistici, artistici o semplicemente affettivi – nell’ottica in cui li percepisce il poeta) e l’uomo che si accorge, anche solo per un attimo, del proprio trastullarsi, mentre è in realtà alla ricerca dell’amore e dell’essenza della vita. Ma questo amore e questa essenza si potranno mai raggiungere? Allora Dio, lui che avrebbe il potere di consolare permettendo il soddisfacimento dell’anelito umano, ha lo stesso potere del vento che, malinconicamente si dissolve come si dissolvono tutte le aspirazioni a cui tende l’uomo.
Fernando Pessoa – Dov’è Dio, anche se non esiste? Onde está Deus, mesmo que não exista?
Nancy Dalberg, String Quartet No. 1 in D Minor: III. Adagio Nordic String Quartet
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Dov’è Dio, anche se non esiste? Voglio pregare e piangere, pentirmi di crimini che non ho commesso, godere del perdono di una carezza non propriamente materna. Un grembo su cui piangere, ma un grembo enorme, informe, spazioso come una notte d’estate e al contempo vicino, caldo, femminile, accanto a un focolare qualsiasi… Potervi piangere cose impensabili, fallimenti che non so neanche quali sono, tenerezze di cose inesistenti e brividi per grandi dubbi su chissà quale futuro… Una nuova infanzia, ancora una vecchia nutrice e un piccolo letto dove alla fine addormentarsi, fra racconti che cullano, uditi appena, con l’attenzione che affievolisce, pericoli che si insinuavano fra giovani capelli biondi come il grano… E tutto ciò grandissimo, molto eterno, per sempre definitivo, della statura unica di Dio, là nella triste e sonnolenta realtà ultima delle Cose… Un grembo o una culla o un braccio caldo attorno al collo… Una voce che canta piano e sembra farmi piangere… Il crepitio della fiamma del focolare… Un caldo d’inverno… Un tiepido smarrimento della mia coscienza… E poi senza suono, un sogno calmo in uno spazio enorme, come la luna che ruota fra le stelle… Quando metto da parte i miei artifici e metto in ordine in un angolo, con un’attenzione piena di affetto – con la voglia di dare loro dei baci –, i miei giocattoli, le parole, le immagini, le frasi –, divento così piccolo e inoffensivo, così solo in una stanza così grande, e così triste, così profondamente triste!… Insomma, chi sono, quando non gioco? Un povero orfano abbandonato in Via delle Sensazioni, che batte i denti dal freddo all’angolo della Realtà, costretto a dormire sui gradini della Tristezza e a mangiare il pane offerto dalla Fantasia. Di mio padre so il nome; mi hanno detto che si chiamava Dio, ma il nome non mi dice niente. A volte, di notte, quando mi sento solo, lo chiamo e piango, e me ne faccio un’idea da poter amare… Ma poi penso che non lo conosco, che forse lui non è così, che forse non sarà mai quello il padre della mia anima… Quando avrà fine tutto ciò, queste strade dove trascino la mia miseria, e questi gradini dove contengo il freddo e sento le mani della notte penetrarmi fra gli stracci? Se un giorno Dio venisse a prendermi e mi portasse a casa sua e mi desse calore e affetto… A volte ci penso e piango per la gioia di pensare che posso pensarlo… Ma il vento soffia per le strade e le foglie cadono sul marciapiede… Alzo gli occhi e vedo le stelle che non hanno nessun senso… E di tutto ciò resto soltanto io, un povero bambino abbandonato che nessun Amore ha voluto come figlio adottivo, nessuna Amicizia come suo compagno di giochi. Ho troppo freddo. Sono così stanco nel mio abbandono. Va’ a prendere, o Vento, mia Madre. Portami di Notte alla casa che non ho mai conosciuto… Restituiscimi, o Silenzio immenso, la mia nutrice e la mia culla e la canzone che mi faceva addormentare…
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Onde está Deus, mesmo que não exista? Quero rezar e chorar, arrepender-me de crimes que não cometi, gozar ser perdoado como uma carícia não propriamente materna. Um regaço para chorar, mas um regaço enorme, sem forma, espaçoso como uma noite de Verão, e contudo próximo, quente, feminino, ao pé de uma lareira qualquer… Poder ali chorar coisas impensáveis, falências que nem sei quais são, ternuras de coisas inexistentes, e grandes dúvidas arrepiadas de não sei que futuro… Uma infância nova, uma ama velha outra vez, e um leito pequeno onde acabe por dormir, entre contos que embalam, mal ouvidos, com uma atenção que se torna morna, os perigos que penetravam em jovens cabelos louros como o trigo… E tudo isto muito grande, muito eterno, definitivo para sempre, da estatura única de Deus, lá no fundo triste e sonolento da realidade última das coisas… Um colo ou um berço ou um braço quente em torno ao meu pescoço… Uma voz que canta baixo e parece querer fazer-me chorar… O ruído de lume na lareira… Um calor no Inverno… Um extravio morno da minha consciência… E depois sem som, um sonho calmo num espaço enorme, como a lua rodando entre estrelas… Quando ponho de parte os meus artifícios e arrumo a um canto, com um cuidado cheio de carinho — com vontade de lhes dar beijos — os meus brinquedos, as palavras, as imagens, as frases — fico tão pequeno e inofensivo, tão só num quarto tão grande e tão triste, tão profundamente triste! … Afinal eu quem sou, quando não brinco? Um pobre órfão abandonado nas ruas das sensações, tiritando de frio às esquinas da Realidade, tendo que dormir nos degraus da Tristeza e comer o pão dado da Fantasia. De um pai sei o nome; disseram -me que se chamava Deus, mas o nome não me dá ideia de nada. Às vezes, na noite, quando me sinto só, chamo por ele e choro, e faço-me uma ideia dele a quem possa amar… Mas depois penso que o não conheço, que talvez ele não seja assim, que talvez não seja nunca esse o pai da minha alma… Quando acabará isto tudo, estas ruas onde arrasto a minha miséria, e estes degraus onde encolho o meu frio e sinto as mãos da noite por entre os meus farrapos? Se um dia Deus me viesse buscar e me levasse para sua casa e me desse calor e afeição… Às vezes penso isto e choro com alegria a pensar que o posso pensar… Mas o vento arrasta-se pela rua fora e as folhas caem no passeio… Ergo os olhos e vejo as estrelas que não têm sentido nenhum… E de tudo isto fico apenas eu, uma pobre criança abandonada, que nenhum Amor quis para seu filho adoptivo, nem nenhuma Amizade para seu companheiro de brinquedos. Tenho frio de mais. Estou tão cansado no meu abandono. Vai buscar, O Vento, a minha Mãe. Leva-me na Noite para a casa que não conheci… Torna a dar-me ó Silêncio imenso, a minha ama e o meu berço e a minha canção com que dormia…
Livro do Desassossego por Bernardo Soares. Vol.II. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982. (289)
György Ligeti Musica ricercata No. 7 Pierre-Laurent Aimard, piano
Jackson Pollock One: Number 31, 1950
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La storia nega le cose certe. Vi sono periodi di ordine in cui tutto è vile e periodi di disordine in cui tutto è eccelso. Le decadenze sono fertili di virilità mentali; le epoche di forza lo sono in debolezza di spirito. Tutto si mescola e si intreccia, e la verità esiste solo come supposizione.
Tanti nobili ideali caduti nel letame, tante ansie autentiche gettate fra i rifiuti!
Nella confusione prolissa del destino incerto, per me, dèi e uomini sono uguali. Sfilano davanti a me in questa anonima stanza del quarto piano, in successioni di sogni e per me non sono niente di più di quello che sono stati per quelli che avevano creduto in loro. Feticci dei neri dagli occhi incerti e stupefatti, dèi-animali dei selvaggi di intricati deserti, simboli allegorici di egizi, chiare divinità greche, rudi dèi romani, Mitra, signore del Sole e dell’emozione, Gesù, signore della conseguenza e della carità, criteri vari dello stesso Cristo, nuovi santi, dèi delle nuove città, sfilano tutti, tutti nella marcia funebre (pellegrinaggio o funerale) dell’errore e dell’illusione. Marciano tutti, e dietro a loro, marciano, vuote ombre, i sogni che, per il fatto di essere ombre sul terreno, i peggiori sognatori credono siano poggiati fermamente sulla terra – poveri concetti senza anima né immagine, Libertà, Umanità, Felicità, il Futuro Migliore, la Scienza Sociale, e si trascinano nella solitudine della tenebra come foglie sospinte solo un po’, dallo strascico di un manto regio rubato da mendicanti.
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A história nega as coisas certas. Há períodos de ordem em que tudo é vil e períodos de desordem em que tudo é alto. As decadências são férteis em virilidade mental; as épocas de força em fraqueza do espírito. Tudo se mistura e se cruza, e não há verdade senão no supô-la.
Tantos nobres ideais caídos entre o estrume, tantas ânsias verdadeiras extraviadas entre o enxurro!
Para mim são iguais, deuses ou homens, na confusão prolixa do destino incerto. Desfilam-me, neste quarto andar incógnito, em sucessões de sonhos, e não são mais para mim do que foram para os que acreditaram neles. Manipansos dos negros de olhos incertos e espantados, deuses-bichos dos selvagens de sertões emaranhados, símbolos figurados de egípcios, claras divindades gregas, hirtos deuses romanos, Mitra senhor do Sol e da emoção, Jesus senhor da consequência e da caridade, critérios vários do mesmo Cristo, santos novos deuses das novas vilas, todos desfilam, todos, na marcha fúnebre (romaria ou enterro) do erro e da ilusão. Marcham todos, e atrás deles marcham, sombras vazias, os sonhos que, por serem sombras no chão, os piores sonhadores julgam que estão assentes sobre a terra — pobres conceitos sem alma nem figura, Liberdade, Humanidade, Felicidade, o Futuro Melhor, a Ciência Social, e arrastam-se na solidão da treva como folhas movidas um pouco para a frente por uma cauda de manto régio que houvesse sido roubado por mendigos.
Livro do Desassossego por Bernardo Soares. Vol.II. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982. – 410.
Dmitri Shostakovich String Quartet No. 8 in C minor, Op. 110 1st movement (Largo) Borodin String Quartet
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DEUS3.6.1913
Avolte sono il dio che porto in me E sono anche il dio, il credente e la preghiera E il simulacro d’avorio dove quel dio si smemora.
A volte sono solo un ateo di quel dio che io sono quando mi esalto. Vedo dentro me un intero cielo ed è il puro vuoto di un cielo alto.
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22.11.1928
La speranza come un fiammifero ancora acceso, L’ho lasciata cadere sul pavimento. Si è spenta sul pavimento illeso. Il fallimento sociale del mio destino L’ho riconosciuto, come un mendicante in prigione.
Ogni giorno mi trascina con qualcosa da sperare Qualcosa che nessun giorno potrà dare. Ogni giorno mi stanca con le sue speranze… Ma vivere è sperare e stancarsi.
La promessa non sarà mai mantenuta Perché nel promettere si è compiuto il destino. Quello che si spera, se la speranza è entusiasmo, È stato speso sperandolo, ed è già finito.
Quanta rivincita pensi contro il destino Nemmeno i versi possono esprimerla. E il dado Rotolato sotto il tavolo, la carta nascosta Neppure il giocatore stanco li cerca.
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28.12.1928
La pallida luce della mattina d’inverno, il molo e la ragione non danno speranza, nemmeno una sola speranza, al mio cuore. Quel che deve essere, sia che io lo desideri o meno.
Nel rumore del molo, nel turbinio del fiume nella strada che si risveglia niente più silenzio, nemmeno un nulla per il mio sperare. Quel che non deve essere altrove sarà, se lo pensassi; tutto il resto è sognare.
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19 novembre 1935 Ultimo componimento poetico scritto da Fernando Pessoa undici giorni prima della morte.
Ci sono malattie peggiori delle malattie, Ci sono dolori che non dolgono, nemmeno nell’anima, Ma sono più dolorosi degli altri. Ci sono angustie sognate più reali Di quelle che la vita ci porta, ci sono sensazioni Provate solo con l’immaginario Che sono più nostre della nostra vita. Ce ne sono così tante che, senza esistere, esistono, esistono lungamente, E lungamente sono nostre, siamo noi … Sopra il verde torbido dell’ampio fiume Gli archi bianchi dei gabbiani … Sopra l’anima il volteggiare inutile Di quel non era, né poteva essere, e questo è tutto.
Fernando Pessoa – Nostalgia! Fernando Pessoa IL POETA È UN FINGITORE Duecento citazioni scelte da Antonio Tabucchi Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Universale Economica” gennaio 2001
Saudades! Livro do Desassossego por Bernardo Soares. Vol.I. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Erik Satie – 1ère Gymnopédie Paul Barton, piano
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Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita. Il vecchio anonimo dalle ghette sporche che mi incrociava quasi sempre alle nove e mezzo del mattino? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza successo? Il vecchietto tondo e rubizzo, col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria? Il pallido tabaccaio? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita? Domani anch’io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch’io – l’anima che sente e pensa, l’universo che io sono per me stesso – sì, domani anch’io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un “che ne sarà stato di lui?”. E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi.
FERNANDO PESSOA IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE A cura di Valeria Tocco OSCAR MONDADORI
Oggi mi sono svegliato molto presto… Acordei hoje muito cedo…[1929] Pessoa, Fernando, 1888-1935. Livro do Desassossego por Bernardo Soares.Vol.I. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982.
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Frammenti L.M.Corsanico, piano
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Oggi mi sono svegliato molto presto, in un impeto confuso, e mi sono alzato lentamente dal letto, oppresso da un tedio incomprensibile. Non era stato causato da nessun sogno; nessuna realtà avrebbe potuto causarlo. Era un tedio assoluto e completo, ma fondato su qualcosa. Nel profondo oscuro della mia anima, invisibili, combattevano forze sconosciute e il mio essere era il campo di battaglia, e tutto me stesso tremava per lo scontro ignoto. Una nausea fisica verso la vita intera era sorta al mio risveglio. Un orrore di dover vivere si era alzato con me dal letto. Tutto mi è parso vuoto e ho avuto la fredda impressione che non esiste soluzione per nessun problema. Un’enorme inquietudine mi faceva fremere a ogni piccolo gesto. Ho avuto timore non di impazzire, ma di venire inghiottito da quel pazzo posto. Il mio corpo era un grido latente. Il mio cuore batteva come se singhiozzasse. A passi lunghi e falsi, che invano avevo cercato di rendere diversi, ho percorso, scalzo, la lunghezza della piccola stanza e la diagonale vuota della stanza interna, con la porta sull’angolo che dà sul corridoio. Con movimenti incoerenti e imprecisi ho toccato le spazzole sopra il comò, ho spostato una sedia, e una volta ho pure sbattuto la mano ondeggiante contro il ferro ruvido dei piedi del letto inglese. Ho acceso una sigaretta che ho fumato senza rendermene conto, e solo quando ho visto cadere la cenere sul cuscino – ma come è possibile, se non mi ci ero chinato sopra? – ho compreso di essere posseduto, o una cosa simile, nel mio essere, anche se non nel vero senso della parola, e che la coscienza che avrei dovuto avere di me si era alternata all’abisso. Ho ricevuto l’annuncio del mattino, la poca luce fredda che getta un vago azzurro bianco sull’orizzonte che si rivela, come un bacio di gratitudine delle cose. Perché quella luce, quel giorno reale, mi liberava, mi liberava da non so cosa, porgeva il braccio alla mia vecchiaia ignota, accarezzava la mia infanzia posticcia, proteggeva il riposo mendico della mia sensibilità dilagante. Ah, che mattino è mai questo, che mi risveglia di fronte alla stupidità della vita e alla sua grande tenerezza! Quasi piango vedendo rischiararsi davanti a me, sotto di me, la mia vecchia strada stretta, e quando la serranda della drogheria all’angolo si intravede già nel suo marrone scuro alla luce che inizia a traboccare, il mio cuore prova un sollievo da fiaba di fate reali e comincia a conoscere la sicurezza di non sentirsi. Che mattino, questa angoscia! E quali ombre si allontanano? E quali misteri ci sono stati? Nulla: il suono del primo tram è come un fiammifero che illumina l’oscurità dell’anima e il calpestio forte del mio primo passante rappresenta la realtà concreta che mi esorta, con voce amichevole, a non stare così.