Piomberemo a breve nelle fredde tenebre.
Addio vivida luce delle nostre estati troppo brevi!
Sento già cadere con funerei colpi
la legna che rimbomba sul lastrico dei cortili.
L’inverno intero sta per entrarmi nel cuore:
collera, odio, fremiti, orrore, lavoro duro e forzato,
e come il sole nel suo inferno polare,
il mio cuore sarà soltanto un sasso rosso e gelido.
Ascolto con tremore ogni ceppo che cade:
non ha eco più sorda innalzare un patibolo.
Il mio spirito è simile a una torre che crolla
sotto i colpi dell’ariete infaticabile e pesante.
Mi sembra, cullato dai colpi monotoni,
che in qualche luogo si chiuda in gran fretta una bara.
Per chi? Ieri era estate ed ecco l’autunno!
Questo rumore misterioso suona come un addio.
II
Amo dei tuoi lunghi occhi i verdi bagliori
dolce bellezza, ma tutto oggi mi è amaro,
e nulla, il tuo amore, l’alcova o il focolare
vale come il sole sfavillante sul mare.
E tuttavia amami, fammi da madre, tenero cuore,
anche per un ingrato, anche per un malvagio.
Amante o sorella, sii la dolcezza effimera
d’un glorioso autunno o di un sole al tramonto.
Compito breve! L’avida tomba attende! Ah! Lasciami, la fronte sulle tue ginocchia, gustare nel rimpianto dell’estate bianca e torrida, il raggio giallo e dolce dell’autunno pieno.
César Vallejo, 16.3.1892 (Santiago de Chuco, Perù) – 15.4.1938 (Parigi) Obra poética completa preparada por Georgette de Vallejo FRANCISCO MONCLOA EDITORES S.A. LIMA, 1968
HERALDOS NEGROS 1918
Traduzione di Marcello Comitini
Gli araldi neri
TRUENOS
Agape
La cena miserabile
I dadi eterni
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Arvo Pärt, Lamentate Olga Scheps, piano Estonian National Orchestra / Bas Wiegers
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GLI ARALDI NERI
Ci sono colpi nella vita, talmente forti … Non so! Colpi come l’odio di Dio; come se di fronte ad essi, la risacca di tutto il sofferto ristagnasse nell’anima … Non so!
Sono pochi; però sono … Aprono solchi oscuri nel volto più fiero e nella schiena più forte. Saranno forse i corsieri di barbari Attila; o gli araldi neri che ci invia la Morte.
Sono le cadute profonde dei Cristi dell’anima, di qualche fede adorabile che il Destino bestemmia. Questi colpi sanguinosi sono i crepitii di qualche pane nostro che sulla porta del forno si brucia.
E l’uomo … Povero … povero! Gira gli occhi, come quando una pacca sulla spalla ci chiama; gira gli occhi folli, e tutto il vissuto ristagna, come pozzanghera di colpa, nello sguardo.
Ci sono colpi nella vita, talmente forti … Non so!
***
AGAPE
Oggi nessuno mi ha fatto domande; né mi hanno chiesto nulla questa sera.
Non ho visto neanche un fiore di cimitero in tanto allegro corteo di luci. Perdonami, Signore: del mio poco essere morto!
In questa sera tutti, tutti passano senza chiedermi, né mi domandano nulla.
E non so cosa scordano e mi resta malamente in mano, come cosa estranea.
Sono andato alla porta, e mi vien voglia di gridare a tutti: Se vi manca qualcosa, qui è rimasto!
Perché tutte le sere di questa vita, non so che porte sbattono su un viso, e qualcosa di estraneo prende la mia anima.
Oggi non è venuto nessuno; e oggi sono morto talmente poco in questa sera!
***
LA CENA MISERABILE
Fino a quando staremo sperando qualcosa che non ci spetta?… E con che angolo stenderemo le povere ginocchia per sempre! Fino a quando la croce che c’incoraggia non fermerà i suoi remi?
Fino a quando il Dubbio ci insignirà di medaglie per aver sofferto?… Siamo stati seduti già molto a tavola, con l’amarezza del bimbo che sveglio a mezzanotte piange di fame …
Quando c’incontreremo con gli altri, sulla soglia di una mattina eterna, dopo aver cenato tutti? Fino a quando questa valle di lacrime, dove non ho mai detto di portarmi.
Sui gomiti, molle di pianto, ripeto sconfitto e a testa bassa: fino a quando la cena durerà?
C’è qualcuno che ha molto bevuto, e prende in giro, e si avvicina e si scosta da noi, come un cucchiaio nero d’amara essenza umana, la tomba … E sa ancor meno l’oscura fino a quando la cena durerà!
***
I DADI ETERNI
Para Manuel González Prada esta emoción bravía y selecta, una de las que, con más entusiasmo, me ha aplaudido el gran maestro.
Dio mio, sto piangendo l’essere che vivo; mi dispiace aver preso il tuo pane; però questo povero fango pensante non è crosta fermentata nel tuo costato: tu non hai Marie che se ne vanno!
Dio mio, se fossi stato un uomo oggi sapresti essere Dio; però tu, che sei stato sempre senza mali, non senti nulla della tua creazione. E l’uomo soffre per te: il Dio è lui!
Oggi che nei miei occhi stregati ci sono ceri come intorno a un condannato, Dio mio, accenderai tutte le tue candele, e giocheremo con il vecchio dado. Forse, oh giocatore, tirando a sorte dell’intero l’universo, sorgeranno le occhiaie della Morte come due assi funebri di fango.
Dio mio, e in questa notte sorda, oscura, non potrai più giocare, perché la Terra è un dado roso e già arrotondato che a forza di ruotare all’avventura, non può fermarsi che in una buca, nella cavità di un’immensa sepoltura.
Della poesia non sapevo nulla. Se fosse venuta a trovarmi con sorrisi e modi eleganti sarei stato felice e mi avrebbe donato il sacro carisma di poeta. Della sua eleganza dei suoi sentimenti della sua delicatezza affascinante non sapevo nulla. Conoscevo gli orrori del vivere le delusioni del bambino dimenticato dell’adolescente guardato come il graffio sanguinante del gatto sul braccio teso a punirlo. E l’orrore dell’ uomo che ha perduto il gusto della vita tra le piaghe del dover vivere. I miei occhi erano ciechi le mie dita erano vuote nel cuore batteva una pena un desiderio bruciante di una mano da prendere. Dicevano che ero vivo che i miei occhi non stavano fermi ma dentro bruciava qualcosa non sapevo cosa, una fiamma un sentimento d’amore una voglia di nascondermi tra i sogni. Di giorno mi rifugiavo nella notte di notte sentivo nel petto la luce fredda della luna Mi spingeva a guardare l’infinito stellato i colori dei fiori, a sentire il profumo di terra bagnata. Mi diceva che il vento porta via ogni cosa anche ciò che ami, ciò che tieni stretto al cuore. Gli alberi erano il simbolo della vittoria. Li spogliava d’inverno. Ma in primavera loro pazienti e caparbi tornavano a vestirsi. Nei miei sogni però gridavano e piangevano. Da lontano la montagna era mia madre ammantata di bianco e il rosso della lava erano le sue labbra i cui baci invano ho desiderato. Dell’uomo sapevo, di mio padre sapevo ch’era capace d’essere gentile che poteva essere crudele infiggere pene, condurre a morire. Ai piedi di una croce ho visto pendere in alto un giovane che invocava suo padre. Ha risposto il gelido sospiro della morte. E gli uomini si giocavano il suo mantello si spartivano le vesti ridevano della sua agonia. Se la poesia fosse venuta a trovarmi avrei capito che l’amore perdona. E invece la poesia l’ho cercata io. Dentro un povero tugurio ho trovato una donna dallo sguardo fiero nascosta nel buio tra pareti di pietra che gocciavano sangue come da quella croce. Cantava sotto voce avvolta nel mantello del giovane crocifisso nelle sue vesti divise e una spugna in mano zuppa d’aceto. L’odore acre mi soffocava. Con tono arrogante (pensavo già d’essere poeta) le chiesi dove potessi trovare la poesia. Cosa vuoi da lei? E puntandomi il dito Non sono io poesia. Ormai decaduta abita ancora un castello sontuoso con eleganti dame di compagnia e servitori ossequiosi. Questa è la tana dei poveri di coloro che sognano inutilmente una vita da esseri umani. Rimani, ti prego T’insegnerò che amare è più doloroso dell’odio. Rimani nel mio tugurio. Tu non sarai mai poeta. Sarai l’eco soltanto dei dolori degli uomini trafitti dalla guerra dall’odio dalla dimenticanza. Sarai il silenzio dei poveri trascinati nel fango dei negri ubriachi ributtati in mare di uomini e donne condannati per aver pensato, per aver lottato per aver creduto nell’essere libero. Griderai e ti diranno che non sarai mai un poeta. I poeti sono eleganti scrivono bene parlano bene sussurrano anche quando parlano del dolore e dei morti. Hanno la musica e fanno danzare il mondo e il mondo ride con le mani in tasca. Non sarai mai un poeta – mi dice la donna – Rimani. Non spegnere il loro silenzio
Arvo Pärt : Lamentate / Olga Scheps, piano Lithuanian National Symphony Orchestra
Fotografia di Remus Tiplea di proprietà dell’Autore
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Quando la stanza che sto per lasciare guarderò dopo una triste malattia e fuori dalla finestra abbagliata dal sole i passeri canteranno il loro semplice addio voi non mi chiederete io non potrò narrarvi cosa prova un uomo nel momento in cui muore. Forse l’angoscia di scendere nel vuoto Forse la gioia d’incontrare la vita.
Ma se fosse un cadere nella terra buia e vermi rosicchiassero l’anima immortale?
Vorrei non pensare che la morte è soltanto colei che lentamente sillaba il mio nome dentro il buio di un pozzo e lascia svanire lo sciame di parole che mi ronzano in cuore cercando l’amore che mi avrebbe salvato.
Ma forse è l’amore il terribile inganno che brilla quando in cielo si oscurano le stelle.
Oblivion – Astor Piazzolla, for cello and strings HAUSER and “I Solisti di Zagreb”
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Nella stanza dei tuoi sogni e delle tue solitudini dove celebri il rito dei piaceri e del tormento e insegni al tuo corpo le dolcezze dell’uomo, dove spegni i desideri con lunghe carezze che le tue mani donano al pube bagnato, sono entrato guidato dai tuoi sorrisi incerti dal tuo sguardo acceso di tenera paura.
Come in un sogno i seni, ciottoli odorosi di un torrente fragrante d’acque luminose sfioro con le mie mani, carezzo con le labbra e aspiro come rose i tuoi capezzoli bruni. Come in un sogno la tua profonda bocca colma di saliva da cui bevo vino spinge il desiderio di spezzare gli argini, spargere i nostri corpi di lucidi cristalli che sgorgano dalla pura sorgente genitale. Entro nella tua vita al centro del tuo cuore al centro delle gambe che in un gesto d’amore apri e rinserri avide intorno ai miei fianchi. E lentamente, mentre i nostri cuori ansanti gustano il piacere, si diffonde la quiete si sciolgono le braccia si allontanano i corpi ma le pupille restano sorridenti a guardarsi si pongono domande suggeriscono risposte.
Dalla finestra aperta entra il tramonto tinge di rosso i nostri corpi ci invita nell’amore, entra il fiato sporco dei motori che passano di auto che soffiano di moto che ruggiscono. E bucano i nostri cuori, strappano il cervello, spalmano sui nostri corpi la paura della morte.
Chiudi la finestra! Stringimi forte al cuore, prima che l’ombra intorbidi i nostri desideri. Dimmi che mi ami e che il tuo corpo sogna di volare al centro della felicità.
Mario Luzi Epifania da: Onore del vero (1957) Introduzione di Marcello Comitini
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Arvo Pärt – Fratres Gil Shaham, violin Roger Carlsson, percussion Gothenburg Symphony Orchestra Neeme Järvi
Autun, Cattedrale di Saint Lazare, “Il sogno dei Re Magi” Gislebertus, 1130
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[…]
a te che vai
persona semiviva tra due gorghi
tra passato e avvenire giunge al cuore
la freccia dell’anno… e all’improvviso
la fiamma della vita vacilla nella mente.
Luzi,Epifania.
Vedi, io vivo. Di che? Non l’infanzia e neppure il futuro
diminuiscono… Esorbitante esistenza
mi scaturisce dal cuore.
Rilke, Nona Elegia Duinese
Due modi di descrivere il cammino umano, due modi di definire l’epifania, tra dubbi e sofferenze. Ma verso dove? Verso Dio o semplicemente, e nel vuoto, verso la morte? Come i tre Magi, evocati da un Luzi quarantenne, comparsi dal nulla, che dopo aver reso omaggio al bambino Gesù, “tra molto popolo”, svaniscono nel nulla,? O resistono soltanto nel ricordo caparbio della tradizione, “non più tardi di ieri, ancora oggi”? Sono dubbi che ciascun poeta tenta di fugare. Ma Luzi non può fare a meno di evocare la polvere, “una gran polvere”, che attanaglia l’anima. E come lui, noi sentiamo ogni giorno quella polvere alzarsi intorno alla nostra esistenza. E ogni giorno temiamo di non appartenere alla schiera di coloro che tendono “le mani ferme sulla fiamma”. Le nostre mani sono ferme? La nostra anima sa ancora stupirsi? Riusciamo ancora a vedere tra la polvere “i fuochi in lontananza dei bivacchi”? Nessuna risposta può giungerci da loro. Solo il loro grido ci giunge. È anche nostro?
J.S. Bach: Sonata No.2 In A Minor Bwv 1003 1. Grave Suyoen Kim, violino
Immagine: Faith47 – Street Art Liberty Du, universalmente conosciuta come Faith 47/Faith XLVII, è un’artista multidisciplinare sudafricana.
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Cosa brucia nel tuo sguardo? Il tizzo d’ira che rimesta nelle ceneri dell’umano? La parola non libera nel deserto dei volti muti come bolle di cristallo? Se hai voglia di gridare, grida e spezza il vetro dell’inesprimibile. Grida sino a raggiungere i gridi di coloro che non possono gridare soffocati dall’oppressione chiusi nella scatola dell’impotenza. Caccia il tuo grido nella gola di colui che sgozza il fratello. Impugna il martello dell’insistenza e incidi il grido nella roccia dell’indifferenza sino a raggiungere la sorgente calda del sangue umano. Fai esplodere il tuo grido ai piedi dell’immenso monumento che esseri insignificanti innalzano all’arroganza. Semina le tue vibranti imprecazioni nei prati aridi della violenza perché attecchiscano come rovi e graffino le mani che non lasciano cadere le armi. Grida più forte del loro assordante crepitio. Quando si sarà estinta la falsa luce che abbaglia, immergi il tuo grido nel buio del dubbio illuminante.
JS. Bach, Prelude No.8 in E flat minor BWV 853. Leopold Stokowski / Czech Philharmonic Orchestra
“Raft of Lampedusa” opera dello scultore britannico Jason DeCaires Taylor. Lanzarote, isola dell’arcipelago delle Canarie, il Museo Atlántico.
“Cain” di Henri Vidal, Jardin des Tuilleries, Paris, 1896.
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Si rabbuia il cielo, lampi lividi tagliano la massa oscura delle nuvole. Sta per collassare l’universo? Sul tronco liscio della croce, una formica sale frettolosa sino ai tuoi piedi trova un seme rosso di melograno lo stringe tra le mandibole, scende tra le pietre lo mette in salvo nella tana. A ogni tuo respiro i lamenti salgono all’infinita era del padre. Chi li accoglie? Pendi dall’alto, il capo cinto dalla corona. Sei il re che implora e accoglie a braccia spalancate. Chi? Un passero impaurito attraversa il cielo si rifugia sui rami esili d’un arbusto in fiore. Chini gli occhi su tua madre. Ti ricorda il giorno delle nozze, la sua preghiera esaudita, il vino migliore offerto per ultimo. Intorno a lei la rosa brulicante degli spettatori che assistono al tuo patire. Alcuni impauriti dalla folgore che squarcia il sipario insanguinato alle tue spalle, altri mordono singhiozzando i fazzoletti, altri piangono sé stessi intenti a spartirsi le tue spoglie.
Il tuo ultimo respiro è un rantolo. O un grido ai futuri secoli che traspaiono nello sconquasso delle nuvole?
Staccato dalla croce la tua spoglia fredda scende nel baratro degli inferi. Un popolo innumerevole di ombre si muove in volo come uno stormo di pipistrelli. Arsi dal desiderio muovono le ali. Non sanno, non ti conoscono. Si ritraggono.
Dall’alto giunge lo spirito, varca l’arco gelido della morte, riprende coscienza nella quiete del tuo cadavere. Nell’ oscurità brilla il lume della resurrezione. Ti viene incontro il popolo di ombre cieche. Un uomo e una donna si fanno avanti tenendosi per mano. Lui bacia le labbra di lei rosse come una mela. Sono distanti dall’amarsi. Ma è comunque amore. Dicono tutti con lo sguardo noi crediamo. E li raccogli nel cavo delle mani, li adagi nel tepore della luce.
E noi, che attendiamo come fossimo ombre già condannate agli inferi, ti vediamo nei bagliori dell’alba abbassare le braccia lungo i fianchi, mostrare le mani ferite. Già sai che ogni tua resurrezione sarà precipitata nell’abisso degli errori, dai sì e no del pensiero troppo umano dalle crudeltà che si perpetuano senza tempo. Prima che tu svanisca nell’alto dei cieli, circondato dagli angeli anche quelli che ci custodivano, abbiamo una domanda che attraversa la fede e la morte. Consolerai il nostro inguaribile dolore? Ci strapperai dal nido delle ombre in cui la nostra vita come il passero impaurito dagli artigli della disperazione si è rifugiata nel cespuglio fiorito dei sogni? Sei il trionfante o vittima dell’Essere Uomo?
Clitemnestra e Cassandra, un’assassina e una vittima, una moglie infedele e un’amante? Aver accostato questi due testi ha lo scopo di meglio sottolineare, senza alcuna finalità di confronto, il valore simbolico della vicenda di Clitemnestra e Cassandra, accumunate dallo stesso destino di essere donne legate alla medesima catena: il loro rapporto con l’eroe Agamennone, come moglie la prima, come amante la seconda. La vicenda è rappresentata all’interno di due distinti teatri di prosa. il primo testo narra l’uccisione di Agamennone per mano di Clitemnestra. il secondo narra l’uccisione di Cassandra per mano di quest’ultima. Clitemnestra compie il suo gesto di vendetta contro un uomo che è, nell’immaginario collettivo, un valoroso combattente. E Cassandra, mal sopportata ancora oggi per l’oscurità della sua veggenza catastrofica, non può che subire la stessa sorte in quanto amante, seppur schiava, dell’Eroe. L’accostamento, come detto non ha lo scopo di mettere a confronto il valore simbolico delle due donne, ma suggerisce ugualmente la domanda su chi delle due subisce la sorte più infelice: Cassandra che viene uccisa perché amante o Clitemnestra che porterà su di sé le conseguenze terribili della sua vendetta? Un vendetta che è resa ancor più drammatica dall’apparire di una terza figura che è vittima innocente e che unisce ancor di più la sorte delle due donne: Ifigenia figlia di Clitemnestra che verrà uccisa due volte: da Agamennone e poi, inconsapevolmente, dalla sua stessa madre. Perché la sorte del femminile è una sola: uccidere una donna, seppure per mano di un’altra donna, significa ucciderle tutte. Entrambi i testi si concludono con gli applausi di coloro che assistono allo svolgersi delle due tragedie. Ma gli applausi a chi sono rivolti ? Una domanda che ci fa riflettere se davvero l’uomo è capace di rifuggire il male.
Lux Aeterna György Ligeti arrangiamento di Shea Lolin
immagini dal web, elaborate
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Da secoli Clitemnestra autrice dell’uccisione del marito, maledetta sin dalla nascita per essere stata concepita con l’inganno, viene giudicata dalla storia ora come una donna infedele, ora come una schiava d’amore, ora come una sanguinaria vendicatrice. A una donna che ha vissuto esperienze dolorose e strazianti, non è concessa l’attenuante dell’umiliazione, a cui non le è stato possibile sottrarsi. Non le è concesso uccidere l’uomo che si è conquistata la fama sui campi di battaglia ma che l’ha usurpata sul terreno delle relazioni umane e familiari. Un uomo che si è permesso di sopprimere brutalmente il figlio della donna, di sacrificare agli dei la figlia Ifigenia, di considerare colei che sarebbe dovuta essere la sua compagna, meno che l’ombra di una schiava. Non è concesso alcun perdono a Clitemnestra in quanto donna. Nessun perdono per Clitemnestra colpevole soltanto di rivendicare, ora che non è più giovane, la sua dignità di essere umano, di riscattare anni e anni di umiliazioni subite, di dolori inflittile, per rivendicare e porre fine alla sua condizione di donna trattata come “colei che non esiste”.
Al centro del palcoscenico tagliato da luci e ombre come una piazza vasta e disadorna, sta in piedi la donna il cui corpo è avvolto da un ampio mantello come un cielo notturno. Rivolta verso il pubblico, i capelli grigi come nuvole a sfiorare appena le spalle, le braccia spalancate in alto, le labbra che sussurrano impercettibili imprecazioni. Altre donne intorno sommariamente coperte da drappi rossi e viola con qualche rara e sottilissima striscia bianca a separare irregolarmente i due colori, lasciano scivolare dalle guance lacrime silenziose. Tremila spettatori con i volti pallidi perfettamente immobili sulle gradinate di pietra dell’ampio teatro greco che degrada a precipizio verso il palco e lo inghiotte al centro del vortice, guardano attentamente la scena e comprendono che la donna invoca la complicità della dea della vendetta. Alle sue spalle, addossato al fondale illuminato da un fascio di luce gelida, un letto dalle lenzuola disfatte. Come le ali bianche di un gabbiano nel buio della tempesta, guida gli sguardi verso il corpo abbandonato a terra. È circondato da una pozza di sangue che s’incanala in rivoli nelle fessure delle travi che alla fine del palco zampillano sui petti degli spettatori della prima fila. Sono soltanto bambini e uomini, vestiti d’una tunica bianca lunga sino alle ginocchia. Hanno il capo coperto da un berretto rotondo di velluto nero e alla vita li stringe un cordone di seta celeste. Le donne sono sedute in fondo alla fila a destra e a sinistra ma sopratutto sulle file posteriori, insieme agli uomini della loro vita, tranne quelle sul palco i cui piedi affondano nella macchia di sangue. Sarà Clitemnestra, oscuro passero che canta doloroso nella gola di una miniera, la donna al centro del palcoscenico? La scure è sul letto con l’impugnatura verso il pubblico. La doppia lama brilla della freddezza dell’acciaio. Dall’altra stanza, la cui porta socchiusa lascia intravedere una vasca colma di acqua bollente coperta da una rete, penetra una nuvola di fumo umido e grigio che si richiude come un intimo separé. Nasconde una ragazza macchiata del sangue schizzato dalle ferite dell’uomo. Tutto il pubblico sa che il suo nome è Ifigenia. Uno spettatore della prima fila si alza e con il dito puntato verso una finestra dai vetri opachi alla destra del palcoscenico indica con voce stentorea che da lì entrerà la dea. Un grido del coro amplifica le sue parole, le spinge fino alle ultime file, le fa volare fino alle stelle che adornano il cielo del teatro. Nel silenzio improvviso il fragore dei vetri infranti. Una pallottola trafigge il petto dello spettatore. Egisto è morto grida il bambino che gli sedeva accanto. Ifigenia gli corre incontro e gli chiede il nome. Ma Il bambino non risponde, sembra non aver udito. I suoi occhi sono del colore del mare, le orecchie di madreperla rosa e la bocca una foglia di alga verde. Scaglie di roccia gli feriscono il corpo. Clitemnestra cade in ginocchio, culla tra le braccia il bambino senza vita, guarda Ifigenia con gli occhi colmi di pietà e di dolore. Sono anni che non la vede. Le chiede di avvicinarsi, d’inginocchiarsi accanto a lei perché possano abbracciare insieme quel corpicino martoriato. Agamennone è morto. Egisto è morto. Oreste ed Elettra si alzano in piedi dalla prima fila sotto il palco. Elettra è camuffata da uomo e Oreste da bambino aggrappato alla mano della sorella. Dal palco salgono le parole di Clitemnestra che si è avvicinata al corpo di Agamennone che giace ai suoi piedi.
Molti per difendermi diranno che l’ho ucciso perché ha ucciso i miei figli perché mi ha rimpiazzato con Cassandra perché la sua assenza mi ha indotta a tradirlo. Altri diranno che l’ho ucciso perché l’amavo. Altri, e anche i miei figli, mi accuseranno d’averlo ucciso perché sono una donna infedele. Nessuno penserà che l’ho ucciso perché in battaglia era un eroe che ha ucciso, ma di fronte a me un uomo senza nessun valore, che ha spogliato la mia anima, ha dilaniato i miei affetti, ha lasciato che il tempo graffiasse il mio corpo, lo gonfiasse e lo piagasse senza neppure una sua parola che desse un senso almeno all’odio di averlo accanto, alla crudeltà del suo esistere, al tormento d’essere sua moglie. L’ho ucciso perché da sempre mi ha usata come una cosa da cui si pretende di ricevere senza nulla dare, una cosa che si abbandona in un angolo come un abito o un utensile, quando se ne trova un’altra più adatta o più nuova. L’ho ucciso per dimostrargli che valeva per me quanto io per lui, io donnetta da poco.
Poi tace. La scure a due lame lancia bagliori come un faro. Ifigenia si allontana lentamente sino a sparire. Anche le donne si allontanano danzando per esprimere il dolore della solitudine. Gli spettatori delle prime file, uomini e bambini, Elettra ed Oreste con le tuniche macchiate stringono in pugno i coltelli con cui trafiggeranno il corpo della donna che ha tradito e l’offriranno alla dea della vendetta, che ha atteso da fin troppo tempo. Il cielo del teatro si è fatto rosso sangue. Tutti gli spettatori si alzano in piedi. Applaudono.
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CASSANDRA di Marcello Comitini
Lettura di Luigi Maria Corsanico
György Ligeti Concerto de chambre pour treize instrumentistes Ensemble intercontemporain Tito Ceccherini, direction
Effetti grafici: LMC
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Un cubo trasparente è ciò che si presenta ai miei occhi, appena varcata la soglia della platea del teatro. È come una scatola di vetro che occupa tutto il palcoscenico da entrambi i lati e fino al limite superiore del sipario. La platea è ancora deserta. Le luci sono spente. Mi chiedo se sono giunto a spettacolo iniziato.
No – mi risponde la maschera che mi accompagna con una torcia, proiettando ai miei piedi una intensa luce che illumina i passi con un alone rosso come macchie di sangue – l’ha voluto il regista affinché niente distragga il pubblico. Vuole che nessuno spettatore possa vedere altro che non sia la scena e gli attori. Anche il colore di questa luce, vede?
Durante la recita – continua la ragazza puntandomi la torcia contro gli occhi – avvengono scambi di personaggi, di vittime che si trasformano in eroi e di eroi in vittime. Bisogna che si presti un’attenzione particolare. Mai voltarsi, per esempio, verso quello specchio enorme che il regista ha voluto in fondo alla sala.
Prendo posto in una poltrona della prima fila, di fianco al corridoio centrale. La ragazza si allontana sorridendo.
Mi guardo intorno. Il pubblico inizia a entrare. Si sperde nella sala, duplicata da quello specchio. Anche gli spettatori saranno duplicati, penso. Saremo in tanti – mi dico guardando le interminabili file delle poltrone ancora vuote.
Da anni si recita questo spettacolo e a ogni replica il teatro si riempie. La particolare sceneggiatura, ma soprattutto la vicenda dell’assassinio di un re e la sua amante, portata da terre lontane, richiama folle immense. La scena dell’assassinio ogni anno viene applaudita particolarmente. Invece – commentano i giornali che recensiscono lo spettacolo ad ogni recita – sembra debole quella della trasformazione. Non aggiungono altro.
Adesso la sala è piena. Mi alzo, mi guardo intorno. Una radura interminabile di poltrone. Ogni poltrona fa sentire lo spettatore come padrone di un piccolo trono. Ogni testa è avvolta stranamente da un intenso alone buio. Siamo re acefali in attesa.
Piccoli fari, posti in basso lungo le pareti laterali della platea, proiettano la loro luce su enormi disegni in stile greco di colore bruno-rossiccio, con figure di uomini mentre afferrano una testa d’ariete e tentano di sfondare un pesante portone di quercia, di altri mentre scendono dal ventre di un cavallo e di donne con piccoli in braccio che fuggono da torri sventrate e in fiamme. In alto sulla parete di fondo del cubo si nota la scena di un eroe con le braccia enormemente lunghe, che sgozza una giovane donna sull’altare di un dio e ne scaglia il corpo contro le rocce.
Al di là della trasparenza delle pareti, il pubblico assiste alla scena preparatoria. Il regista vuole che tutto si svolga in modo cristallino dinnanzi agli occhi degli spettatori.
Nella penombra, tra corde e travi , gli operai manovrano le funi, le fanno scorrere silenziosamente sulle carrucole, i fonici sistemano le casse acustiche e gli elettricisti puntano i fari e illuminano l’interno come una stanza. È una luce fredda come se il sole di una giornata invernale attraversasse il soffitto.
All’interno del cubo sulla sinistra è rimasto in ombra un angolo che forma una inspiegabile nicchia con al centro uno sgabello di legno scolpito e intarsiato con fregi d’oro.
Clitemnestra è in piedi di profilo. Dona la sensazione d’essere entrata da destra attraversando un varco invisibile nella parete. Indossa un elegante mantello celeste che le avvolge il corpo e una tunica bianca lunga sino ai piedi. Sosta per un attimo poi si dirige verso lo sgabello. Si siede con le spalle dritte e rigide, poggia le mani sul ventre, le nasconde tra le profonde pieghe blu del mantello. A fianco dello sgabello, come uno scettro lasciato lì provvisoriamente, il lungo manico di una scure a doppio taglio le cui lame lanciano bagliori alla luce dei fari. Come quello degli spettatori, il volto di Clitemnestra è in ombra. La sua lunga tunica bianca spicca come il calice di un giglio rovesciato. Dietro le sue spalle scorre lungo la parete di fondo il sangue della giovane donna. Oh, adesso sembra un bambino!
Volgendo le spalle al pubblico Cassandra sta in piedi in silenzio. È al centro del fascio di luce con cui l’occhio di bue la illumina con violenza.
Chi può mai dimenticare – grida Clitemnestra – che Agamennone ha ucciso mio figlio scagliandolo contro una roccia e poi mia figlia Ifigenia, sacrificata per condurre qui questa straniera? Questa barbara che non comprende neppure la nostra lingua ma vuole entrare in questa casa come fosse la sua?
Un mantello di povera lana rossa, lacerato in più parti, ricopre a mala pena le spalle di Cassandra lasciandola quasi nuda. Gli sguardi del pubblico la spogliano del tutto, desiderosi di toccare almeno con gli occhi il suo corpo statuario.
Si vede chiaramente che ha freddo, lacrime silenziose le solcano le guance, ma non si riesce a vederne il volto immerso nell’ombra, profonda e spessa come il velo che le ricopre il capo.
I tecnici si allontanano. La scena preparatoria è terminata. Le mura grezze del teatro ricoperte di polvere e nero di fumo, fanno da sfondo.
Clitemnestra invita Cassandra a varcare la parete di fondo per raggiungere Agamennone.
Cassandra sembra non aver sentito. Immobile e silenziosa abbassa leggermente il capo sul petto. Clitemnestra nell’ombra sorride con un’espressione serena sul volto.
Il pubblico non capisce. La lentezza della scena esaspera gli spettatori. Temono una lunga attesa prima di poter vedere scorrere il sangue dell’eroe. Eppure gli era stato promesso. Che fine aveva fatto l’uccisione di Agamennone?
Uno del pubblico si alza, si allontana dal proprio posto, attraversa il corridoio centrale sino a giungere ai piedi del palco. Vi si appoggia con il petto, distende le braccia, spalanca le mani, punta gl’indici verso Cassandra, a voce alta le chiede di voltarsi e mostrare il viso. Poi si rivolge a Clitemnestra chiedendole se davvero ucciderà Agamennone, da dove le viene la forza di mostrare quella serenità, se dietro quel sorriso si nasconde un inganno.
O forse il regista ha deciso che Agamennone non venga ucciso? E perché tace Cassandra? Ha dimenticato la battuta? E il suggeritore dentro la buca si è addormentato?
Qualcuno in fondo alla platea grida che nessuno spettacolo può pretendere che la tensione possa durare in eterno né permettersi di lasciare che il pubblico attenda per troppo tempo le risposte.
Si giunga al nocciolo, si uccida Agamennone, si uccida Cassandra e finalmente libero da ogni suo timore, Egisto esca da dietro le quinte. Faccia vedere che il suo amore è sincero. Ci faccia sognare, aggiunge un’anziana signora seduta al mio fianco, con gli occhi che luccicano di vani desideri.
Clitemnestra si alza in piedi, smette di sorridere e rivolta al pubblico giura d’aver già ucciso Agamennone e che adesso toccherà alla straniera.
Dal fondo della platea si ode un grido. Il pubblico si gira, vede Agamennone cadere nella rete della sua sposa. Il delitto viene replicato con freddezza dallo specchio su cui schizzano grosse gocce di sangue.
Tutti gli spettatori chiedono a gran voce, pugni alzati, che sia subito uccisa anche Cassandra e che entrambi siano appesi perché tutti possano vedere i loro volti, riconoscerli domani tra la folla.
Dal vuoto dello specchio, una voce di donna:
Credevi di sorprendermi quando hai teso l’agguato ad Agamennone, credevi che non sapessi che nascondevi tra le pieghe del tuo cuore il coltello con cui mi ucciderai?
Lo sapevo fin da quando Apollo mi ha condannata a questa preveggenza, fin da quando Agamennone mi ha costretta a diventare la sua amante.
Quando sulla nave che ci portava qui sono entrata tra le sue braccia, stretta in una relazione carnale tra vincitore e vinta, mi ha narrato di te, di come con gli anni ti sei trasformata, hai perso ogni grazia. Sapeva che al rientro non avrebbe potuto più desiderarti, che saresti stata per lui come un tramonto di cui si percepisce nelle ossa il freddo della notte.
Tra le sue braccia ho sentito il fiotto del sangue sgorgare dalle sue vene, scendere sino al mio ventre, macchiare le mie cosce di vergine, e ho sentito il tuo fiato di fuoco sul mio collo come una madre che odia la figlia preda del delirio del sesso.
Non ero io la preda ma il tuo Agamennone, preda cieca delle proprie voglie, del desiderio di potere, del suo sentirsi irresistibile e invincibile.
Anche io, condannata alla veggenza, conosco molto meglio di te, tutti i terribili delitti di cui si è macchiato, delle uccisioni, delle sue vittime, come se io fossi una di loro, delle tue umiliazioni subite, della sua violenza contro una vergine.
Tu mi ritieni una barbara, temi che io sia una che vuole sottrarti il potere. Come sei cieca! Non sai che anche tu sarai presto vittima di quelle stesse paure che credi di allontanare uccidendomi.
Tace per un attimo. Si volge verso il pubblico come una cieca nelle tenebre della notte e con voce stentorea dice: E tutti voi che volete la mia morte, siete già vittime delle vostre paure.
Il silenzio si è fatto come un fumo azzurrognolo che stagna su ogni più piccola fonte di luce. Tutto diventa incerto in questa nebbiolina che confonde i contorni.
Gli spettatori alzano gli occhi verso il palco. Clitemnestra si muove lentamente, i suoi passi sono pesanti, è confusa. Va alla spalle di Cassandra e le vibra numerosi colpi di pugnale alla schiena.
Cassandra cade alzando il volto verso la sua assassina. Un fascio di luce la colpisce in viso. Le sue guance sono rigate di lacrime. Le sue mani si tendono verso Clitemnestra.
Un sibilo risuona per tutto il teatro acuto e penetrante come quello di un’aquila ferita in alto tra i monti. È Cassandra o Clitemnestra che grida? Sembra piuttosto l’urlo lanciato dalle vittime amplificato all’infinito dallo specchio in fondo alla platea.
Tutto il pubblico si alza in piedi sgomento, volta per un attimo le spalle alla scena. L’uomo che prima si era appoggiato al palcoscenico con il petto si ritrae inorridito. Anche lui guarda verso il fondo della sala.
Quello che il regista avrebbe voluto scongiurare a tutti i costi, è accaduto. Quell’attimo di distrazione ha permesso a Cassandra di fuggire.
No – mormora tra sé lo scenografo – Non è fuggita. Si è cambiata di abito, ne ha indossato uno elegante, ha scostato i capelli incollati alla bocca sanguinante, li ha legati dietro la nuca. Non è più la straniera. È Ifigenia, che tutti vediamo sacrificata sull’altare in fondo a quella parete.
Adesso Clitemnestra inorridita si china sulla vittima, stringe tra le braccia il suo corpo senza vita, le afferra il capo tra le mani, le carezza le guance. La bacia sulla fronte piangendo. La chiama figlia.
Il pubblico con le lacrime agli occhi si alza in piedi e applaude. A chi?
Arvo Pärt : Lamentate / Olga Scheps, piano Lithuanian National Symphony Orchestra
Fotografia di Remus Tiplea di proprietà dell’Autore
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Quando la stanza che sto per lasciare guarderò dopo una triste malattia e fuori dalla finestra abbagliata dal sole i passeri canteranno il loro semplice addio voi non mi chiederete io non potrò narrarvi cosa prova un uomo nel momento in cui muore. Forse l’angoscia di scendere nel vuoto Forse la gioia d’incontrare la vita.
Ma se fosse un cadere nella terra buia e vermi rosicchiassero l’anima immortale?
Vorrei non pensare che la morte è soltanto colei che lentamente sillaba il mio nome dentro il buio di un pozzo e lascia svanire lo sciame di parole che mi ronzano in cuore cercando l’amore che mi avrebbe salvato.
Ma forse è l’amore il terribile inganno che brilla quando in cielo si oscurano le stelle.