Pintura de: Giacomo Grosso (1860–1938), La nuda. 1896
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Cuando al atardecer me acerco a tus labios mientras un último rayo de sol te envuelve como otra piel y las inmensas alas de la noche se pliegan desde el espacio y cae la hora de la envidia y de la angustia y surge clara la sonrisa de tus ojos como el encanto del alba y tornan renovadas las horas de la ternura y de la dicha de vivir, yo me siento como el pequeño carro que transporta por el cielo la esperanza de los amantes y tendido en el silencio del entorno anhelo el azul estremecimiento de tus dedos que dibujan en la oscuridad las caricias y los vértigos.
Io sono il Sud di Orazio Nastasi Furnari 8/10 agosto 2016 Tutti i diritti riservati ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e s.m.i.
Lettura di Luigi Maria Corsanico Nastasi
Base musicale estratta da: Madredeus, O Espírito Da Paz
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Io sono il Sud. Anzi il Sud del Sud. E la mia terra è al Sud di tutto. Altro Sud non v’è ché non ci sono mani tese né braccia che si comprano e si vendono. I raggi solari sono verdi ogni sera sul mio mare e spalancano la notte quando si sognano parole fastidiose per i maniaci del potere che altrimenti dovrebbero percorrere una storia che non finisce come una strada. Per questo ci rubano anche le parole i ladri di sogni e non mutano lingua né accento senza profitto. Pensa, amico mio, cosa frulla nella testa di una tigre in uno zoo quando sente l’odore sanguigno della libertà o di un fanciullo costretto all’amaro delle radici nel confronto con i cani di un Nord qualsiasi. Io sono la tigre e sono il mangiatore di radici. E mi sento sempre più spesso (e Dio non vuole, perché il tuo è anche il mio Dio) come un arco che ha frecce avvelenate in fin la cocca. Non temi ancora la distanza o l’eco delle voci proibite che scavalcano le valli? Non senti lo struscio sconosciuto dei venti di tempesta su per i tortuosi sentieri che appressano alla tua casa? Miro e amo il tuo vagare tutto il giorno per i palazzi dove si fabbrica il futuro del mondo mentre i miei passi spaventano una gallina zoppa e me stesso nell’aia d’ogni cosa deserta. Noto che il giallo il verde il rosso regolano il moto della ricchezza anche se da qualche tempo per farla passare inosservata hai inventato le rotonde. E che i cavalli meccanici si sono scrollati il giogo anche se una catena sempre li tiene e l’asino saputo se la ride delle alate intenzioni dei parenti nobili. Ma io non sono un asino e pure a me piace carezzare almeno la peluria bionda della vita e in cerchio andare ridendo con gli amici e battere con il piede la terra anche se non ho mai studiato la scala e sopporto ancora a stento il dito saggio di mia madre sulle labbra. Penso anche tu sappia che le dita di una mano sono cinque capaci di tenere duro insieme con forza bruta e con coraggio quando serve. Ora tu mortale io mortale senza un attimo di sosta come la risacca del mare stiamo appena cominciando (te lo concedo) a contare le parole prima che salti il tappo del Vulcano e il fuoco inarrestabile faccia svaporare anche l’aria e rendere inutile l’alacre attività delle macchie del sole. Le parole che ti porto conoscono i millenni ma nel mio sogno (spero anche nel tuo) hanno un suono nuovo come un corpo e un’anima nuovi hanno un uomo e una donna quando si amano come un fiore che torna a sbocciare e ad appassire senza chimica e l’odore acre delle ascelle profuma di fatica e di dignità. Il grifone e le iene mi conoscono e il puma, il canguro saltatore, e l’anaconda mi conosce, così l’orca del mare e il ruggito rauco del leone e il piccolo passero. E io conosco loro. E niente mai ci siamo negati di quanto è sulla terra e nel mare. E quella che tu immagini giustizia e continui a negare anche a te stesso loro e io l’abbiamo realizzata. Ma orribile a dirsi manca tra noi. Ed è male. Osserva le maree. Sempre in moto. E nemmeno una di loro si lamenta se l’onda di una preme sulla sua ché alla riva tutte giungono e si distendono e insieme si asciugano sulla sabbia e non conoscono diversità. Così noi giungiamo alla nascita. Dopo un lungo viaggio di secoli e secoli da padri in madri passando nuove gemme preziose veniamo al mondo tutti di colore diverso e deboli come siamo muoviamo la vita instancabili ai poli dove il bianco acceca o dove diciamo equatore e gli occhi illuminano il colore della notte sulla pelle. Uguali come il brusio delle stelle. Io sono il Sud e non mi piace scambiare la rozza sedia di legno con una che puzza di petrolio. Così come vorrei tu venissi qui per i cespugli di more della mia terra che hanno nel sapore tutta la potenza del sole o dove senza vista si stendono la savana e la pampa. E senza dogane armate le corressi e vedessi frignare le lacrime e spargersi nella dignità del giorno i singhiozzi della fame che non c’è canto che possa calmare mentre si mordono le mani le madri che mangiano terra e nelle stesse ore per le tue praterie si accavallano le spighe e ammuffisce il pane tra gli scarti. Qui al Sud si moltiplicano bocche senza parola e la cova maledetta delle armi. E l’unica libertà è morire senza disturbare come un filo d’erba che al mattino spunta e la notte non vede. Dentro di me come in tutte le terre che dite malate più lungo è il giorno e su ogni mezzo che uso per venire ad ascoltare le canzoni degli umani. Sono al mondo come sono, io sono noi. E la mia vastità è la stessa del tempo della storia negata, della bellezza ingaggiata per il malo ingordo piacere il cui fondo nessuno scandaglio misura. La verità non si nega e non è bella solo a metà. Cammina con il mondo di pari passo col mondo al fianco d’ogni uomo anche quando più nera è la notte e pare scomparire ogni miraggio. Capisci cosa dobbiamo avere il coraggio di dirci? Di quali speranze sono colme le mie braccia e le tue? Che nessun uomo deve aspettare con terrore di aprire gli occhi al dolore di un nuovo giorno? E che al fondo di tutto non ci sono altri che tu e io noi e le nostre parole? Cosa temere? Se abbiamo in cuore la primavera niente potrà impedirci se è il tempo in cui il pane risorge e noi avanziamo sapendo e facendo casa comune su questo scoglio dell’universo.
Erik Satie – Gnossienne No.4 Reinbert de Leeuw, piano
immagini: L.M.Corsanico
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Ai confini deve pur esserci
una strada sotto ai nostri piedi
e la sottile differenza che non hai tessuto.
Come al di qua un uomo e una donna
che continuano ad amarsi
quasi come cielo e terra
in solitudine.
Per paura d’essere derisi.
Ai confini deve pur esserci
qualcuno che racconta una storia vera
che dice di timore
ma anche del fuoco dentro la speranza
nonostante tu.
E ci saranno pure quelli che
si arrampicano sulla gobba di un arcobaleno
fuori dalla grigia nebbia
e sentono la gioia di essere in vita
se come un liquore dolce
la versano dalla coppa delle loro mani
e non si stancano?
Dicono che ai confini tutti avanzano nella Bellezza e il sole non appassisce. Bello sarà fiorire.