Edizione di riferimento: Giacomo Leopardi Canti a cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli Prefazione di Cesare Garboli Torino : G. Einaudi, 1962
La ginestra o Il fiore del deserto è la penultima lirica di Giacomo Leopardi, scritta nella primavera del 1836 a Torre del Greco nella villa Ferrigni e pubblicata postuma nell’edizione dei Canti nel 1845.
A Silvia, Canti XXI (Pisa, 19-20 aprile 1828) Lettura di Luigi Maria Corsanico
Georg Philipp Telemann
Dal Concerto in sol maggiore per viola, archi e basso continuo
Immagini dei manoscritti dalla Biblioteca Nazionale di Napoli
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Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare 5 Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all’opre femminili intenta 10 Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri 15 Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D’in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20 Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25 Lingua mortal non dice Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia 30 La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. 35 O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, 40 Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi; Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, 45 Or degli sguardi innamorati e schivi; Nè teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d’amore.
Anche peria fra poco La speranza mia dolce: agli anni miei 50 Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell’età mia nova, Mia lacrimata speme! 55 Questo è quel mondo? questi I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti? All’apparir del vero 60 Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano.
Giacomo Leopardi – Alla luna, Canti XIV Lettura di Luigi Maria Corsanico
Antonio Bartolomeo Bruni (1757~1821) Viola Sonata in E-flat major, Op. 27 No. 4 II. Romance : Adagio Viola : Antonello Farulli Harpsichord : Gabriele Micheli Cello : Francesco Dillon
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O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!
“La sera del dì di festa” è una poesia composta da Giacomo Leopardi nel 1820, pubblicata insieme agli altri Idilli nel 1825 sul «Nuovo Ricoglitore», poi nell’edizione dei Versi del 1826 e nei Canti del 1831.
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Vladimir Ashkenazy – Chopin Nocturne No 20
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XIII
LA SERA DEL DÍ DI FESTA
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
giá tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, ché t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e giá non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sí benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. — A te la speme
nego — mi disse, — anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. —
Questo dí fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non giá ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi
in cosí verde etate! Ahi! per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dí festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorío
che n’andò per la terra e l’oceáno?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e piú di lor non si ragiona.
Nella mia prima etá, quando s’aspetta
bramosamente il dí festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto, che s’udía per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
giá similmente mi stringeva il core.
In concomitanza con la lettura collettiva dell’intera poesia de “L’infinito” di Giacomo Leopardi, da parte degli studenti delle scuole di ogni ordine e grado alle ore 11.30 del 28 maggio.
Giacomo Leopardi Canti XII – L’Infinito (Recanati, 1819) XXVIII – A se stesso (Firenze, settembre 1833)
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Jules Massenet, Méditation de Thaïs
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XII L’Infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
XXVIII A se stesso
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.