Salvador Dalí, Reminiscenze archeologiche dell’Angelus di Millet, 1933 – 1935 / St. Petersburg, The Salvador Dali Museum
Jocy de Oliveira – Solaris (1988) Instrumentation oboe and tape Ricardo Rodrigues – oboe
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Disteso sull’erba dove il sole è più caldo penso che un giorno nutrirò la terra e l’erba crescerà più verde. Penso che la morte improvvisa è la giovane donna che inattesa mi viene alle spalle sorridendo mi copre gli occhi con i boccioli freschi delle sue dita mi posa un bacio sulle labbra e mi conduce per mano in un angolo appartato dove tra pioppi e cipressi i raggi d’oro al tramonto confortano due corpi nudi. Nuda mi donerà quel che la vita col suo pudore non mi ha mai donato. Come nessuna donna succhierà dalla mia bocca tutta la linfa dei miei sensi. E quel profondo brivido che scenderà dalle labbra lungo il corpo dissolverà in una misteriosa luce tutte le immagini vane. Tra le sue braccia inizierò il lungo viaggio nel buio d’eterne gallerie ricorderò quante volte ho atteso in stazioni deserte quel treno da cui sarebbe scesa come se avesse le ali per corrermi incontro e annullare gli eterni minuti dell’orologio che segna soltanto le partenze e gli addii. Abbracciati sul prato le sue carezze come un vellutato mantello di pace scioglieranno dal mio corpo grumi di gioie illusorie i desideri vani e feroci i dolori terribili e dall’animo ogni tormento. Sarò il bambino che dorme felice sul prato.
Particolare da: Uomo che scrive una lettera (1660) Jacob Levecq
MEDITATION – Paul HINDEMITH Viola – Flora VAN LEEUWEN Piano – Marc VAN MOERKERCKE
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Lettera a …
Da anni ti attendo in silenzio. Tu vieni quando vorrai. So che verrai. Sei la terra su cui poggio i piedi il ramo da cui guardo il mondo. Ma il giorno in cui mi sarai accanto come una madre raramente amata con l’agonia del figlio tra le braccia non riuscirò a vederti. Ti sentirò soltanto. A bocca spalancata e muta ti dirò eccomi. Basta il movimento delle labbra. Le parole non servono. Sorda ad ogni voce umana o non umana sollecita soltanto ai sospiri dell’anima. I tuoi occhi volti all’indietro nel non luogo della notte mi riconoscono. Mi chiamerai per nome? Quando verrai sarà un giorno tranquillo simile a quello che mi ha visto nascere. Nelle luci soffuse il parlare sottovoce di uno sparuto coro accoglierà il tuo arrivo. Un sommesso lamento qualche lacrima lenta. Mi sarà data in dono come Orfeo a Euridice una rosa da custodire tra le mie mani sul petto. E tu in piedi davanti al mio corpo disteso sulla terra bianca delle lenzuola somiglierai al mio sogno di donna che mai mi ha stretto tra le sue braccia. Quando verrai il tuo sorriso sarà l’invito a rifugiarmi tra le tue. Sono fredde ma mi faranno fremere perché è da tempo che attendo di ricongiungermi al buio caldo e umido del tuo corpo. Vieni quando vorrai. Sarai la serenità che ho atteso per aprire le ali.
Abbiamo letti pieni di profumi leggeri,
divani profondi come le tombe,
e sugli scaffali i fiori più strani
schiusi per noi sotto bellissimi cieli.
Consumando al massimo il loro calore
Due fiaccole saranno i nostri due cuori
Che rifletteranno le loro doppie luci
Negli specchi gemelli dei nostri due spiriti.
In una sera rosa e di mistico blu
Ci scambieremo un unico bagliore
Come un lungo singhiozzo carico di addii.
E subito un Angelo dischiudendo le porte Verrà a rianimare, fedele e gioioso, gli specchi offuscati e le fiamme morte.
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XCIX LA MORTE DEI POVERI
È la Morte che consola e la Morte che fa vivere.
È scopo della vita ed è la sola speranza
Che, divino elisir, c’inebria e ci pervade
E ci dona la forza d’arrivare sino a sera.
Attraverso la tempesta e la neve e il gelo
è il chiaro che vibra all’orizzonte nero,
è l’albergo famoso annotato sul libro
dov’è possibile sfamarsi, e dormire e sedersi.
C’è un Angelo che tiene tra le dita magnetiche
il sogno e il dono di estatici sogni
e apparecchia il letto dei poveri e nudi.
È la gloria di Dio, è il granaio mistico, è la borsa del povero e la sua patria antica, è il portico aperto su Cieli sconosciuti.
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C LA MORTE DEGLI ARTISTI
Quante volte dovrò scuotere il mio sonaglio
E baciare la tua fronte bassa, triste caricatura?
Per cogliere nel segno di mistica natura
Quante frecce perdere, o mia faretra?
Affaticheremo la nostra anima in sottili complotti
e spesso demoliremo la pesante armatura
prima di contemplare la grande Creatura
che colma di singhiozzi il desiderio infernale!
Coloro che non hanno mai conosciuto il loro Idolo,
scultori dannati e marchiati d’infamia
che vanno martellandosi il petto e la fronte
non hanno altra speranza, Campidoglio triste e strano!
Che la Morte planando come un nuovo Sole,
faccia sbocciare i fiori del loro cervello!
Dipinto di Lorenzo Bonechi (Figline Valdarno, 12 aprile 1955 –23 novembre 1994)
Richard Strauss Morgen!, op. 27 no. 4 Arr. Vista Trio Franklyn D’Antonio, violin Andrew Cook, cello Shari Raynor, piano
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Dicembre
Parole germogliate dalle nostre labbra dalla felicità dei nostri volti dalle nostre mani nelle notti d’amore hanno adesso il colore mesto delle foglie autunnali. Sul tronco dell’albero spoglio il tuo nome e il mio incisi con la tenera lama della primavera sono due piccole macchie due cicatrici livide sulla corteccia.
Décembre
Les mots germés de nos lèvres de le bonheur de nos visages de nos mains dans les nuits d’amour ont maintenant la triste couleur de feuilles d’automne. Sur le tronc de l’arbre nu ton nom et le mien gravés de la lame tendre du printemps sont deux petites taches deux cicatrices livides sur l’écorce.
Diciembre
Las palabras brotaron de nuestros labios de la felicidad de nuestros rostros de nuestras manos en las noches de amor ahora tienen el color triste de hojas de otoño. En el tronco del árbol desnudo tu nombre y el mio grabados con la tierna hoja de la primavera son dos pequeños puntos dos cicatrices lívidas en la corteza.
Chiudere gli occhi e pensare nel buio della mente nel frastuono del cuore. Lasciare che la memoria sfogli il passato senza sapere quali immagini cercare tra le pagine non ancora strappate per paura o vergogna a volte sbiadite a volte rigate di lacrime spesso macchiate così tanto di vino d’apparire più nere di una notte invernale. Forse cercare ai piedi di alberi spogliati dal tempo le orme dei compagni smarriti nei labirinti dei miei sentieri vagando da una città all’altra per sfuggire a quel vago sentore di morte nell’abito a fiori bianchi e neri di mia madre nel suo corpo dolente nel suo sguardo trafitto dalla cecità di un coltello. O ritrovare nei viali alberati della città immaginata a me straniera il calore di quella ragazza e sotto il suo cappotto rosso l’incanto di un corpo giovane nei suoi occhi passione e l’innocente paura che danno vita al sogno della bellezza che ride ancora di me e mi perseguita. O ritrovare sulle labbra la fontana dell’affetto di moglie e figli nel giardino in cui sbocciano i rari fiori dell’intimità. Nel buio della mente preda del vino che scorre nelle mie vene si fa strada il pensiero che il sangue e la carne spingono ogni giorno il mio corpo a cercare un corpo che non abbia carne né sangue ma una bellezza così vasta e profonda da saziare la mia anima d’infinito. Oh, non quel Cristo che pende nudo dalla croce senza staccare le mani dai neri chiodi che ho amato e pianto nella mia adolescenza come d’innanzi a un tramonto che lentamente è svanito lontano nella nebbia e ha lasciato il rimpianto e un disperato bisogno di giustizia e d’amore. Né il ricordo di colei che mi viene incontro che nelle sue poesie mi dice liebst du mich? e io non la capisco che mi sorride ma non la vedo sento soltanto un’ala che mi sfiora come di una rondine in cerca del nido. Ma alla mia mente appare l’immagine luminosa di un’altra giovane donna. Mi carezza con la sua ala di aquila ferita con la voce di un angelo mi dice je t’aime con il corpo affamato d’amore e l’anima che nascosta sanguina. È quel fiore chiamato rosa e il suo strano colore rosso dona al grigio del mio tramonto l’inattesa sensazione di un’alba che nasce. Perché risvegliarmi dal mio passato ? Dovrò cancellare i ricordi in nome di ciò che non si nomina che stenderà sui miei occhi il velo oscuro della sua presenza? Non dovrò più pensare a quel Cristo alla sua e mia sete di giustizia chiudere gli occhi a ogni grido che sento? Non senza amarezza penso che è stato già molto amare ed essere amato convertire le parole in musica diffondere nell’aria il profumo di due corpi che si desiderano la purezza della fontana inesauribile i fiori rari del mio giardino l’orrore per la violenza e l’egoismo. Quando scenderà sui miei occhi il velo a sfocare l’ultima immagine della mia vita non mi rimarrà che poggiare la fronte sulla mano destra piegare la schiena in avanti e guardare la sola immagine in cui la lama del tempo piomba a separare spirito e corpo.Chiudere gli occhi e pensare nel buio della mente nel frastuono del cuore. Lasciare che la memoria sfogli il passato senza sapere quali immagini cercare tra le pagine non ancora strappate per paura o vergogna a volte sbiadite a volte rigate di lacrime spesso macchiate così tanto di vino d’apparire più nere di una notte invernale. Forse cercare ai piedi di alberi spogliati dal tempo le orme dei compagni smarriti nei labirinti dei miei sentieri vagando da una città all’altra per sfuggire a quel vago sentore di morte nell’abito a fiori bianchi e neri di mia madre nel suo corpo dolente nel suo sguardo trafitto dalla cecità di un coltello. O ritrovare nei viali alberati della città immaginata a me straniera il calore di quella ragazza e sotto il suo cappotto rosso l’incanto di un corpo giovane nei suoi occhi passione e l’innocente paura che danno vita al sogno della bellezza che ride ancora di me e mi perseguita. O ritrovare sulle labbra la fontana dell’affetto di moglie e figli nel giardino in cui sbocciano i rari fiori dell’intimità. Nel buio della mente preda del vino che scorre nelle mie vene si fa strada il pensiero che il sangue e la carne spingono ogni giorno il mio corpo a cercare un corpo che non abbia carne né sangue ma una bellezza così vasta e profonda da saziare la mia anima d’infinito. Oh, non quel Cristo che pende nudo dalla croce senza staccare le mani dai neri chiodi che ho amato e pianto nella mia adolescenza come d’innanzi a un tramonto che lentamente è svanito lontano nella nebbia e ha lasciato il rimpianto e un disperato bisogno di giustizia e d’amore. Né il ricordo di colei che mi viene incontro che nelle sue poesie mi dice liebst du mich? e io non la capisco che mi sorride ma non la vedo sento soltanto un’ala che mi sfiora come di una rondine in cerca del nido. Ma alla mia mente appare l’immagine luminosa di un’altra giovane donna. Mi carezza con la sua ala di aquila ferita con la voce di un angelo mi dice je t’aime con il corpo affamato d’amore e l’anima che nascosta sanguina. È quel fiore chiamato rosa e il suo strano colore rosso dona al grigio del mio tramonto l’inattesa sensazione di un’alba che nasce. Perché risvegliarmi dal mio passato ? Dovrò cancellare i ricordi in nome di ciò che non si nomina che stenderà sui miei occhi il velo oscuro della sua presenza? Non dovrò più pensare a quel Cristo alla sua e mia sete di giustizia chiudere gli occhi a ogni grido che sento? Non senza amarezza penso che è stato già molto amare ed essere amato convertire le parole in musica diffondere nell’aria il profumo di due corpi che si desiderano la purezza della fontana inesauribile i fiori rari del mio giardino l’orrore per la violenza e l’egoismo. Quando scenderà sui miei occhi il velo a sfocare l’ultima immagine della mia vita non mi rimarrà che poggiare la fronte sulla mano destra piegare la schiena in avanti e guardare la sola immagine in cui la lama del tempo piomba a separare spirito e corpo.
Richard Wagner Wesendonck Lieder, Träume Jill Valentine, viola Madeline Slettedahl, piano
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I FIORI DEL MALE SPLEEN E IDEALE LX Spleen(Sono pieno di ricordi come avessi mille anni)
Sono pieno di ricordi come avessi mille anni. Un mobile enorme con cassetti colmi di versi, bilanci, processi, romanze, dolci biglietti con spesse ciocche di capelli avvolte nelle quietanze, nasconde meno segreti del mio triste cervello. È una piramide, un immenso sepolcro nascosto che contiene più morti di una fossa comune. Io sono un cimitero che la luna rifugge, dove lunghi versi, strisciando come rimorsi, si accaniscono sempre sui miei morti più cari. Sono una vecchia stanza piena di rose appassite dove giacciono in gran disordine modelli superati, dove pastelli lacrimosi e pallidi Boucher aspirano il profumo vecchio di un flacone aperto. Nulla eguaglia in lunghezza queste giornate assurde quando sotto i fiocchi pesanti di nevose annate la noia, frutto della piatta apatia, assume le dimensioni di un essere immortale. — Ormai tu non sei, o materia vivente, che una roccia circondata da spaventose onde, una roccia assopita in fondo a un Sahara brumoso, una vecchia sfinge ignorata da un mondo senza pensieri, dimenticata dagli atlanti, e dall’umore scontroso che canta solamente ai raggi del tramonto.
Questo romanzo che sto leggendo è un mistero. Lo penso sfogliando le pagine mentre passeggio lungo la riva aspra e scoscesa del lago del Salto senza alzare gli occhi. Non ha personaggi e neppure una trama. Alle mie spalle un bosco denso di querce di faggi e castagni. Ai miei piedi il lago ricorda che un uomo ha fermato il corso dell’acqua con una barra di fuoco e cemento. Nel silenzio degli alberi l’acqua ha creato uno scenario ancora più bello. Un vento leggero accompagna la mia lettura come fossi sotto la lampada che oscilla sulla porta di casa. Un romanzo di albe e tramonti di panorami da respirare fin dove si spinge lo sguardo oltre le cime azzurre delle montagne, lungo le rive di mari lucidi e turchesi. Inizia così il mio ritorno in Sicilia, al giardino di casa dove mio padre, con in testa il berretto che portavano i contadini sulla soglia dei loro tuguri, sedeva all’ombra secolare di un tiglio argentato, circondato da vecchi Cavalieri Erranti. Seduto sulla tredicesima sedia della tavola rotonda, narrava storie d’amore tra rumorose risate e bagliori di spade e alabarde. Nei suoi occhi erano ombre con la parvenza di uomini vivi con i volti segnati dagli elmi e le tuniche bianche macchiate all’altezza del petto con croci di sangue. Anche mio padre era un’ombra che si aggirava per casa e in giardino strappava qualche erba selvatica, seguiva le gesta dei grandi persecutori, poneva domande a cui nessuno sapeva rispondere. Mio padre chiedeva alle ombre quanti anni mancassero perché cessasse la guerra prima che il genere umano finisse per essere estinto. Ma forse non erano neppure domande. Passeggiando mi chiedo se nel romanzo troverò il ritorno di mia madre che mi abbraccia e mi addita gli orizzonti che ho mancato nella mia vita e sulla spiaggia dei miei pensieri solitari, la ballerina bianca che si è fermata ad amarmi. Non ha paura dell’uomo. L’uomo non esiste tra le pagine di questo romanzo. C’è solo il ritorno alla mia finestra spalancata a guardare da casa il vulcano e i giganti con un solo occhio di fuoco in mezzo alla fronte. Dalle soglie delle loro caverne ogni giorno scrutano fra le onde i neri e pesanti brandelli di cuore scagliati nel mare. Nessuno risponde. Il vulcano ammantato di neve innalza grigi sospiri di fumo e allarga le braccia forti e rosse sulla tenera carne delle campagne intorno, per coglierne i frutti come soli al tramonto tra le cortine verdi degli alberi.
Leggo con estrema lentezza, gusto il sapore di ogni parola, di ogni riga, di ogni periodo, di ogni pausa nei ritorni a capo, per sentire sino in fondo alla carne l’attesa del momento in cui sarò certo di come andrà a finire. Mi occorrerà del tempo e tanta volontà per resistere alla fatica di tenere in mano le numerosissime pagine di questo volume pesante e unico. Faccio fatica a sfogliarlo. Passo leggermente le dita da una pagina all’altra. So che le pagine possono girarsi da sole anche se dormo col capo ripiegato sul petto e giungeranno alla fine di questo romanzo senza spezzare i miei sogni.
Seduto da solo al tavolino del bar senza ambizioni né desideri triste e quieto penso alle sale d’attesa piene di sogni altrui e le ricopio in versi sul foglio del mio pensiero. Nelle lunghe giornate di sole seguo il vostro passarmi accanto come vigili mummie dai visi riarsi, le ragazze con le labbra assetate d’amore che ridono eternamente giovani e i bambini vocianti che mangiano un gelato alla fragola. Ma in fondo alla strada è il vento lieve come una farfalla che mi porta il profumo della natura e un interminabile tramonto nel susseguirsi delle stagioni. In compagnia del silenzio sento il lento scrosciare della pioggia sul selciato e nella notte sotto lo sguardo muto dei lampioni il sonno delle vetrine sbarrate dalle serrande mi ricorda come sono stati i miei anni. Nulla intorno mi distrae dal pensare alle speranze ingannatrici del mio passato ai sogni inutili di un futuro immaginato. Il vecchio Ribeiro che mi sta di fronte sul suo alto monumento di marmo si compiace delle sue trovate argute e si congeda con un sorriso ironico. Quando il sole brilla pesante nell’azzurro qualcuno sorridendo mi siede accanto finge di conversare con me e mi chiede come mai le mie parole ardono ancora tra incanto e cupa contemplazione. Con il braccio poggiato sul tavolino taccio come una cosa dimenticata che vede in sé stessa la disperazione del nulla. Prima di allontanarsi mi stringe la mano sospesa tra il cuore e la mente come un airone che porta via i sentimenti verso un cielo dove si mescolano illusioni e dolore. Non posso guardarvi negli occhi e se potessi vi guarderei senza vedervi. E se vi vedessi quanto lontano sarei dai vostri pensieri! Nel bronzo che m’imbalsama il corpo nell’immobile parvenza di vita il mio cuore paziente come il ragazzo che spesso ho rimpianto palpita ancora per vendicarsi d’averlo negato con la stessa passione con cui si nega Dio. Mi levo l’ampio cappello augurandovi buon sole e la pioggia se necessaria.
M’immagino Pessoa che scrive con la pipa tra le labbra nella sua confortevole stanza, e mentre scrive pensa che tutto ciò che gli sta intorno non esiste. Ma è lui che lo cancella e nel cancellarlo si fa il dono del vuoto, che gli permette di vedersi nudo e indifeso e spesso offeso dalla realtà da cui si sente aggredito. Non è la realtà che lo aggredisce ma quella condizione, spesso maledetta, che condanna tutti i poeti a vedere, con occhi esasperati dalla propria sensibilità, ogni cosa incastonata nella propria transitorietà, destinata a finire, e che nulla di ciò che li circonda è puro, di quella purezza che solo un animo sensibile desidera al di là di ogni possibile realtà. Quando poi l’idea di Dio e della sua eternità immutabile, diventano per il poeta la chiave che spalanca la porta del sognare e del piangere, allora l’uomo-poeta si accorge del proprio bisogno più intimo di sentirsi orfano per poter accrescere il sogno di essere amato. Ma anche per ipotizzare un universo talmente immenso da contenere indistintamente tutti i propri sogni e i propri incubi, e per l’eternità smarrirvisi. Questo prendere coscienza della propria contraddittorietà, crea una frattura – come la sente Pessoa – tra l’uomo che ogni giorno gioca con i suoi gingilli (tecnologici, hobbistici, idealistici, artistici o semplicemente affettivi – nell’ottica in cui li percepisce il poeta) e l’uomo che si accorge, anche solo per un attimo, del proprio trastullarsi, mentre è in realtà alla ricerca dell’amore e dell’essenza della vita. Ma questo amore e questa essenza si potranno mai raggiungere? Allora Dio, lui che avrebbe il potere di consolare permettendo il soddisfacimento dell’anelito umano, ha lo stesso potere del vento che, malinconicamente si dissolve come si dissolvono tutte le aspirazioni a cui tende l’uomo.
Fernando Pessoa – Dov’è Dio, anche se non esiste? Onde está Deus, mesmo que não exista?
Nancy Dalberg, String Quartet No. 1 in D Minor: III. Adagio Nordic String Quartet
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Dov’è Dio, anche se non esiste? Voglio pregare e piangere, pentirmi di crimini che non ho commesso, godere del perdono di una carezza non propriamente materna. Un grembo su cui piangere, ma un grembo enorme, informe, spazioso come una notte d’estate e al contempo vicino, caldo, femminile, accanto a un focolare qualsiasi… Potervi piangere cose impensabili, fallimenti che non so neanche quali sono, tenerezze di cose inesistenti e brividi per grandi dubbi su chissà quale futuro… Una nuova infanzia, ancora una vecchia nutrice e un piccolo letto dove alla fine addormentarsi, fra racconti che cullano, uditi appena, con l’attenzione che affievolisce, pericoli che si insinuavano fra giovani capelli biondi come il grano… E tutto ciò grandissimo, molto eterno, per sempre definitivo, della statura unica di Dio, là nella triste e sonnolenta realtà ultima delle Cose… Un grembo o una culla o un braccio caldo attorno al collo… Una voce che canta piano e sembra farmi piangere… Il crepitio della fiamma del focolare… Un caldo d’inverno… Un tiepido smarrimento della mia coscienza… E poi senza suono, un sogno calmo in uno spazio enorme, come la luna che ruota fra le stelle… Quando metto da parte i miei artifici e metto in ordine in un angolo, con un’attenzione piena di affetto – con la voglia di dare loro dei baci –, i miei giocattoli, le parole, le immagini, le frasi –, divento così piccolo e inoffensivo, così solo in una stanza così grande, e così triste, così profondamente triste!… Insomma, chi sono, quando non gioco? Un povero orfano abbandonato in Via delle Sensazioni, che batte i denti dal freddo all’angolo della Realtà, costretto a dormire sui gradini della Tristezza e a mangiare il pane offerto dalla Fantasia. Di mio padre so il nome; mi hanno detto che si chiamava Dio, ma il nome non mi dice niente. A volte, di notte, quando mi sento solo, lo chiamo e piango, e me ne faccio un’idea da poter amare… Ma poi penso che non lo conosco, che forse lui non è così, che forse non sarà mai quello il padre della mia anima… Quando avrà fine tutto ciò, queste strade dove trascino la mia miseria, e questi gradini dove contengo il freddo e sento le mani della notte penetrarmi fra gli stracci? Se un giorno Dio venisse a prendermi e mi portasse a casa sua e mi desse calore e affetto… A volte ci penso e piango per la gioia di pensare che posso pensarlo… Ma il vento soffia per le strade e le foglie cadono sul marciapiede… Alzo gli occhi e vedo le stelle che non hanno nessun senso… E di tutto ciò resto soltanto io, un povero bambino abbandonato che nessun Amore ha voluto come figlio adottivo, nessuna Amicizia come suo compagno di giochi. Ho troppo freddo. Sono così stanco nel mio abbandono. Va’ a prendere, o Vento, mia Madre. Portami di Notte alla casa che non ho mai conosciuto… Restituiscimi, o Silenzio immenso, la mia nutrice e la mia culla e la canzone che mi faceva addormentare…
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Onde está Deus, mesmo que não exista? Quero rezar e chorar, arrepender-me de crimes que não cometi, gozar ser perdoado como uma carícia não propriamente materna. Um regaço para chorar, mas um regaço enorme, sem forma, espaçoso como uma noite de Verão, e contudo próximo, quente, feminino, ao pé de uma lareira qualquer… Poder ali chorar coisas impensáveis, falências que nem sei quais são, ternuras de coisas inexistentes, e grandes dúvidas arrepiadas de não sei que futuro… Uma infância nova, uma ama velha outra vez, e um leito pequeno onde acabe por dormir, entre contos que embalam, mal ouvidos, com uma atenção que se torna morna, os perigos que penetravam em jovens cabelos louros como o trigo… E tudo isto muito grande, muito eterno, definitivo para sempre, da estatura única de Deus, lá no fundo triste e sonolento da realidade última das coisas… Um colo ou um berço ou um braço quente em torno ao meu pescoço… Uma voz que canta baixo e parece querer fazer-me chorar… O ruído de lume na lareira… Um calor no Inverno… Um extravio morno da minha consciência… E depois sem som, um sonho calmo num espaço enorme, como a lua rodando entre estrelas… Quando ponho de parte os meus artifícios e arrumo a um canto, com um cuidado cheio de carinho — com vontade de lhes dar beijos — os meus brinquedos, as palavras, as imagens, as frases — fico tão pequeno e inofensivo, tão só num quarto tão grande e tão triste, tão profundamente triste! … Afinal eu quem sou, quando não brinco? Um pobre órfão abandonado nas ruas das sensações, tiritando de frio às esquinas da Realidade, tendo que dormir nos degraus da Tristeza e comer o pão dado da Fantasia. De um pai sei o nome; disseram -me que se chamava Deus, mas o nome não me dá ideia de nada. Às vezes, na noite, quando me sinto só, chamo por ele e choro, e faço-me uma ideia dele a quem possa amar… Mas depois penso que o não conheço, que talvez ele não seja assim, que talvez não seja nunca esse o pai da minha alma… Quando acabará isto tudo, estas ruas onde arrasto a minha miséria, e estes degraus onde encolho o meu frio e sinto as mãos da noite por entre os meus farrapos? Se um dia Deus me viesse buscar e me levasse para sua casa e me desse calor e afeição… Às vezes penso isto e choro com alegria a pensar que o posso pensar… Mas o vento arrasta-se pela rua fora e as folhas caem no passeio… Ergo os olhos e vejo as estrelas que não têm sentido nenhum… E de tudo isto fico apenas eu, uma pobre criança abandonada, que nenhum Amor quis para seu filho adoptivo, nem nenhuma Amizade para seu companheiro de brinquedos. Tenho frio de mais. Estou tão cansado no meu abandono. Vai buscar, O Vento, a minha Mãe. Leva-me na Noite para a casa que não conheci… Torna a dar-me ó Silêncio imenso, a minha ama e o meu berço e a minha canção com que dormia…
Livro do Desassossego por Bernardo Soares. Vol.II. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982. (289)
Lievemente sfumata dalla cecità del sole, tu figura lontana come l’alba mi vieni incontro con la luce soave del tuo corpo nell’opaco specchio del tempo non ancora consumato dalla mia memoria. Vicino a me il tuo viso appare nei vetri oscuri della stanza spoglia dove attendo la tua veste con il fruscio del volo e il biancore inargentato della luna ora che la notte è scesa sulla città e le case accendono rade finestre – la mia è rimasta buia. Tra i riverberi miti dei sorrisi e il rosso delle labbra che spezza il mio silenzio chiedi l’amore di uno sguardo, una carezza in sogno. Ma so che sei altrove e il cuore batte stanco e di pietà per la mia pena. Ora che sei davvero più lontana della nuvola perduta nell’azzurro del suo cielo e la sospinge il vento, la dilania col suo aspro soffio in figure astratte che mai avremmo immaginato, tu mi sei vicina perché così è la storia di due anime che non sanno come incontrarsi quando nella notte incerta ed ingannevole la luna guarda altrove.