Fernando Pessoa Poesias de Álvaro de Campos Lisboa: Ática, 1944
Non so. Mi manca il senso, il tatto (Não sei. Falta-me um sentido, um tacto-1.3.1917)
Traduzione di Marcello Comitini
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Erik Satie – Gymnopédie No.3 Reinbert de Leeuw, piano
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Non so. Mi manca il senso, il tatto
per la vita, per l’amore, per la gloria…
E poi che me ne faccio di una storia qualunque
o di un fatto qualunque?
Sono solo, solo come nessuno lo è mai stato,
chino su di me, senza prima né dopo,
sembra che gli istanti passino senza quasi vedermi,
ma passano senza che il loro passo sia leggero.
Inizio a leggere e quel che non ho letto già mi stanca.
Voglio pensare, ma mi fa male la conclusione a cui giungerò.
Mi pesa il sogno prima di sognarlo. Sentire
è una cosa come qualunque cosa già vista.
Non esser niente, essere una figura di romanzo,
senza vita, senza morte materiale, un’idea,
una qualunque cosa che nulla possa rendere utile o laida,
un’ombra su un terreno irreale, un sogno in trance.
J.S.Bach – Suite No. 5 in C minor, BWV 1011 – Prelude
Stephane Tetreault, cello
Immagine: L.M. Corsanico
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Colui che tiene in pugno il potere immenso
di lasciarmi vivere verrà alla mia porta
con l’arroganza del giusto.
Entrerà in casa valuterà la mia vita
separerà quel che ha un prezzo da quel che non vale.
Ignorerà legami, sentimenti e desideri
perché non sa che il loro prezzo si paga con monete
che non possono tenersi in tasca.
Lo guardo
dal basso verso l’alto come un pesce boccheggiante
in una bolla d’acqua marcia.
«Amico – mi dirà col volto serio
come una muraglia – forse non sai che rovisterò
nella tua anima e porterò via
ogni pensiero, ogni ricordo e la tua esistenza».
Oh, lo so! Porterà via tutto chiuso nel sacco
colmo di parole usate. Parole ormai scadute,
che hanno il suono di un lamento,
di singhiozzi soffocati sulla federa tiepida
di un cuscino solcato da rondini
all’ombra dei templi dove sono nato.
Fuggono
verso climi più ospitali
verso cieli d’un azzurro intenso
dove anche le nuvole sono bianche
profumate di zagara, gelsomini e mandorli.
Sono fuggito come le rondini
segnando senza badarvi il mio destino
d’evocare invano la felicità. Ma ora
con le ali ferite il mio viaggio sarà
in quel sacco sigillato
da una cerniera arrugginita e forte
come la catena che in fondo al mare
tiene immobile il relitto di un vascello.
Affondato da più di settant’anni
miglia e miglia lontano dal suo porto
con i pennoni spezzati e le vele lacere
a ogni mutare di stagione ha visto
attraversare liberi nell’aria
migliaia di stormi migratori.
Forse una corona di fiori senza profumo
si strapperà dalle ali delle rondini
galleggerà trasportata da un’onda
che inconsapevole la lascerà
a marcire sulla spiaggia sorvegliata dai templi
e dal dio che riderà
della mia esistenza e del tentativo
vano e caparbio di sopravvivere
equivocando l’evocare con l’esistere.
Uomo libero, sempre amerai il mare! È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima nell’ infinito muoversi della sua lama. E il tuo spirito non è abisso meno amaro. Divertito ti tuffi in seno alla tua immagine, l’abbracci con lo sguardo, con le braccia e il cuore a volte si distrae dal proprio palpitare al bombo di quel pianto indomabile e selvaggio. Siete discreti entrambi, entrambi tenebrosi: sconosciuto, uomo, il fondo dei tuoi abissi, sconosciute, mare, le tue ricchezze intime, tanto gelosamente custodite i segreti! E tuttavia ecco che vi combattete da infiniti secoli senza pietà né rimorso, a tal punto amate le stragi e la morte, o lottatori eterni, o fratelli implacabili!
Quando il cielo basso e cupo pesa come un coperchio
sullo spirito gemente preda di eterna noia,
e coprendo per intero il cerchio dell’orizzonte,
ci muta in nero un giorno più triste della notte;
Quando la terra si muta in una cella umida
dove la Speranza, simile a un pipistrello,
se ne va battendo i muri con le ali timide
e urtando con la testa contro soffitti marci;
Quando la pioggia dispiegando le sue immense scie
imita le sbarre di una grande prigione
e un popolo silenzioso di schifosi ragni
tende le sue tele in fondo ai nostri cervelli,
campane tutt’a un tratto scoppiano con furia e lanciano verso il cielo urla raccapriccianti come spiriti erranti e senza patria che si mettono a gemere insistenti. — E vecchi funerali, senza tamburi né musica, lentamente sfilano nella mia anima; e la Speranza piange come vinta, la dispotica Angoscia, sul mio cranio reclinato pianta il suo vessillo nero.
J.S. Bach:Sarabande Violin Partita No.2 in D minor BWV 1004 Alina Ibragimova
Odilion Redon, Evocazione di farfalle
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I Non voglio vivere come vivono i ciechi che pregano il sole senza averlo visto e credono che Dio sia il raggio che li carezza saggiandone tepore morbidezza e languore. Temono il silenzio come temono il rumore sentono nel vento lo schiaffo della natura e nella tempesta la condanna di Dio. Toccano l’acqua come un essere immondo che striscia e li avvolge con viscide spire e sentono la terra un rifugio sicuro un guanciale per ascoltare i battiti del cuore.
Non voglio vivere come vivono i sordi
che percepiscono il cuore toccandosi il polso
e guardano le vene sul dorso della mano
chiedendosi se il sangue è un fiume che rumoreggia.
Vedono nelle labbra della persona amata
schiudersi il vermiglio sull’alabastro dei denti
e non sapranno mai se la luce che brilla
è un sorriso schietto o un’ironica smorfia.
Guardano all’orizzonte tra fiammate di nuvole
il sorgere del sole, l’uragano che nasce
e divampa negli occhi assetati di musica
il desiderio ansioso di una memoria antica.
Non posso vivere come vivono i muti
che hanno la gola cieca e sorda la bocca
che assorbono come spugne il soffio della vita
e si gonfiano come otri senza vie di fuga.
Zampogne senza bordoni, tamburi senza suoni,
eseguono con i gesti pentagrammi di musiche
e parole che mai leniranno il cuore.
II Posso chiudere gli occhi come fanno tutti i poveri al mondo, i cenciaioli, con orecchie tappate e labbra strette per non sentire le voci che osannano al Dio che tutto suo malgrado perdona, per non gridare il dolore che morde i sogni acciambellati in fondo alla coscienza.
Voglio morire come muoiono coloro
che vivono spingendo carrelli della spesa
colmi di stracci e di speranze miserabili.
Coloro che, lungo strade di scaffali vuoti,
lungo corsie di case spente e tutte uguali,
annegano nel vino che fa dolce il rossore
piagnucoloso delle loro facce.
Chiuderò gli occhi, serrerò le orecchie.
Con le viscere piene del fuoco del liquore
mi stenderò supino lungo spiagge deserte
e guarderò le stelle chiuse nel mio cuore.
Ascolterò le onde che mi lambiscono la mente
e quando all’orizzonte s’infiammeranno i soli
chiederò alle farfalle, vanesse, colie, brintasie,
di coprirmi gli occhi e da dolci amiche
bere le lacrime che scorreranno
involontarie sul mio viso.
Paul Hindemith Cello Sonata Solo, Op.25 No.3 3.Langsam Natalia Gutman cello solo
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Questo ci affidi
con le tue mani
gonfie di dolore:
nascere, crescere, morire,
avvolti in un involucro
che strappiamo ad ogni istante
a volte a graffi e morsi
a volte a bocca umida e rossa
di baci o di pietà.
Contiene – lo sappiamo – lucidi alcuni doni oscuri e non graditi altri che in ansia un po’ infantile spacchettiamo finché troviamo quello che ci esplode dentro. Ahi, non l’amore che desideriamo né la felicità che si svapora appena il vento ne dissipa il profumo. Un dono che deflagra all’improvviso prima di riuscire a dargli un nome tra le nostre mani gonfie di dolore.
Miles Davis – L` Assassinat De Carala . 1958 (Movie: Elevator to the Gallows)
Copertina: Edward Hopper – Night Shadows (1921) Immagini: foto dal web di proprietà degli autori
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L’ombra cammina silenziosa avanti e indietro.
I suoi passi si attardano nella luce
di piccole lune gialle e malate
sospese a illuminare
l’asfalto della strada deserta.
In mezzo alle case c’è odore di polvere e di auto.
Nessuno la vede.
È un assassino che si guarda alle spalle
o un solitario in attesa di un corpo di donna
che lo consoli con le sue carezze.
In alto il cielo è un rettangolo nero
di tela strappata e mal rattoppata
da grumi di nuvole
e dal filo tagliente dei tetti.
Tutto è confuso tra il sonno e il sogno
tra me e quell’ombra che si guarda alle spalle.
La vedo andare su e giù sotto la luce
delle lune gialle e malate con un coltello
in una mano e nell’altra il mio cuore.
La luce si dilata dietro le montagne
traspare tenue come vetro azzurro
perché possa anch’io volare
oltre l’oscurità delle colline.
La notte si condensa fra le ombre delle querce
Si scioglie lentamente nella brina
scivola nelle acque ancora buie del fiume,
fugge trascinata lontano dalle onde.
Perché possa anch’io volare…
Io che resisto al vento pesante come sasso
chiuso in me stesso e nei miei desideri.
Leggero come foglia vincolata al ramo
tento di fuggire fremendo nella luce.
Io che sono ombra della notte,
carne della quercia, sangue di quel fiume
che si trascina tra le onde verso il mare.
Perché possa anch’io volare…
Io che non amo le ali della morte.
L’albero profondo e folto nell’estate
ci nascondeva il cielo che in eccesso
abbiamo immaginato azzurro.
Ora spoglio lo spazio irrompe tra i suoi rami.
Come uccelli impauriti ci buttiamo in volo
verso il cielo che ci nega.
E ripensiamo con malinconia alla pienezza profonda di quell’albero.
Il giorno raggrinzito
da una notte al buio
distende le sue braccia
lungo strade e strade
dove passano uomini
(nessuno resta immobile)
uomini che vivono
nel segno della pace
uomini che dimenticano
gli uomini che muoiono
di fame o d’una guerra
(lontana per fortuna).
S’alzano di buon’ora,
doccia e colazione.
Baciano i bambini,
escono per le strade,
profumano di pulito,
di sole e borotalco.
Anch’io bevo al mattino,
un caldo caffellatte
e prima d’andar via lavo le mie mani.
Le immergo, l’acqua scorre
chiara sempre più chiara
scompare nel lavabo.
Eccole le mie mani.
Sono fredde e bianche
pulite come marmo.
Le mie mani stringono
carezzano nascondono
attirano respingono
tracciano nell’aria
confini ben visibili.
Poi quando il giorno stanco
si chiude lentamente
e spegne le sue luci nella notte buia,
prima d’addormentarmi
ho cura di lavarle
perché non è accettabile
che le miserie umane
cacciate oltre i confini
tornino con i loro sogni
sporchino il sonno giusto
di uomini senza colpe.
L’alba che mi sorride
con il viso dolce
come una bambina
fra braccia che la amano,
tra sonno e veglia invita
a guardarmi intorno.
E all’improvviso grido: “È sangue!”
Le ho guardate
prima di addormentarmi
Erano bianche e fredde
pulite come marmo.
Ora sporche di sangue
sono le mie mani!
Qualcuno – chi? – ho ucciso!
Qualcuno accanto a me
-o forse era lontano?-
Mentre sognavo il cielo,
moriva col pugnale
acuto del silenzio.
Quando ho chiuso gli occhi
e l’ho dimenticato
lui moriva straziato
dall’indifferenza.