HAUSER e “I Solisti di Zagreb” – Oblivion di Astor Piazzolla. Trascrizione per cello by Hauser.
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GELOSIA
In me ti cerco in te mi perdo sommerso dalle acque ferme e grigie delle distanze, in estenuanti attese in corridoi infiniti e mille porte che si aprono sul vuoto. In te mi perdo ancora quando la notte porta misteriosa la seta morbida dei tuoi seni alla mia bocca. Nuvola carica di amorevole pioggia il tuo corpo fluttua sul mio corpo. Sospinta dal vento si è fermata su grandi alberi carichi di frutti rossi li rende fertili fa sbocciare i fiori dalle radici del mio amore. Dov’è la nuvola? Quale vento inebriante vuole allontanarti oltre i confini del mio unico cielo? In me ti cerco e ancora in te mi perdo. E questo perdermi mi è amaro come la morte che mi circonda con le sue braccia.
En mi te busco en ti me pierdo hundido en las aguas tranquilas y grises de las lejanías en expectativas agotadoras en pasillos interminables y mil puertas que se abren al vacío. En ti aun me pierdo cuando la noche misteriosa trae la seda suave de tus pechos a mi boca. Nube cargada de lluvia amorosa tu cuerpo flota sobre mi cuerpo. Empujado por el viento se detiene por encima de los grandes árboles llenos de frutos rojos los hace fértiles y hace brotar las flores de las raíces de mi amor. ¿Dónde está la nube? ¿Que viento embriagante quiere llevarte más allá de los confines de mi único cielo ? En mí te busco y aun en ti me pierdo. Y perderme me es amargo como la muerte que me rodea con sus brazos.
Maurits Cornelis Escher “Mano con sfera riflettente” (1935)
JS. Bach, Prelude No.8 in E flat minor BWV 853. Leopold Stokowski / Czech Philharmonic Orchestra
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Come se la mia memoria avesse l’occhio enorme e folle di un ciclope mi passano dinnanzi ombre dritte e mute che sopravvivono come alberi che hanno lasciato cadere le foglie e ora tendono verso l’alto le braccia magre e grinzose. Sotto un cielo di cenere si allontanano assieme al paesaggio che fugge all’indietro nel riquadro del finestrino all’uomo affacciato dal treno dei miei anni. Vedo le ombre in lunghi filari. Rimangono e passano come lento gregge al pascolo nel grigio soffio dell’aria. Una si trasforma in rosa ormai appassita da tempo che misteriosamente ancora m’inebria con la sua fragranza. Una in tenue stella nella vastità del buio scaglia il suo raggio dritto e luminoso nell’occhio della mia memoria. Un’altra ha la punta dolorosa di spina conficcata nelle ali del mio cuore. Alcune vestono parvenze umane nei loro abiti di cerimonia o di lutto, nei sudari di morte o di vita. M’inondano i sensi le loro lacrime malinconica luce per l’occhio, o le loro risate suono melodioso per l’orecchio. Si sommano i giorni agli anni. Immobile sul loro correre non mi stanco del paesaggio dietro i vetri illuminato dal sole o appannato dal gelo.
Catania skyline in watercolor background Pablo Romero / Professional photographer CEV Madrid Art School of Huelva
Erik Satie, Gnossienne n.1 Ulrich Schröder, Praful – Solo Live in Amsterdam 2014
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È in fondo al senso della vita la città dei ricordi e dei miei versi distesa tra le braccia nere del vulcano amata dal luminoso sorriso del mare il ventre aperto per mostrarsi più bella. Ma è una ferita che la squarcia come un vitello appeso al chiodo da anni infetta di sporcizia e mosche. Il mio tenue ricordo è in quella strada avida di negozi eleganti un fascio di luce che unisce il sole il mare e la neve nella memoria immobile a guardarla come un lungo cero acceso. Risuona incurante delle chiacchiere dei sorrisi perfidamente ammiccanti delle signore eleganti appassite dentro i loro abiti di primavere lontane sedute ai bar a sfogliare le loro memorie e di giovani appoggiati ai muri che guardano le ragazze orgogliose dei loro amori impressi sulle bocche rosse nei lunghi capelli neri e nella notte splendente dei loro occhi. La città del ricordo impetuoso appartiene a mia madre che attraversa pudica e indignata la rete dei vicoli viscidi lastricati d’umido tra donne dai seni straripanti di neve a guardarla come una santa coi suoi gioielli in ciascuna mano. E io curioso a scrutare le loro mammelle riverse fuori dai nidi vuoti che la notte ospitano lupi e sirene odorose di sperma e sudori. Chi mi aveva insegnato a vedere quel vivere di giorno invisibile? Era la voce sanguinante del mio quartiere di fianco a quella ferita, erano gli sguardi rochi degli uomini con le mani in tasca e la camicia sbottonata sul petto che offrono le loro donne al passante e le preservano dai piaceri dell’amore. Guardavo desideravo sognavo con l’innocenza del giusto Giuseppe che sfugge alle braccia della vogliosa Zuleika. Eppure le amo ancora quelle che bisbigliavano d’alcove al giovane sognante gli occhi ardenti di una ragazza acerba. Nel ricordo più intenso appaiono strade straripanti d’uomini in tuniche bianche ch’esultano per gli occhi rivolti al cielo di quell’altra ragazza acerba dai seni dilaniati dall’amore canceroso. Veniva di notte e versava nella mia bocca il latte dalle sue mammelle miracolosamente vergini. Fontana divina in un viale fiorito che m’invitava a bere il suo miele il miele per riconoscere i viali e le fontane da cui zampilla l’amore. Li percorrevo in compagnia di silenziose amiche visi languidi fontane vivaci che nascondevano i sentimenti a occhi bassi. I viali mi apparivano falsamente fioriti l’amore una ferita inguaribile e il mio dolore il dolore del mondo. Strade viali vicoli sono le viscere della mia memoria intenerita dalla lontananza dal desiderio amaro di non tornare.
J.S. Bach:Sarabande Violin Partita No.2 in D minor BWV 1004 Alina Ibragimova
Odilion Redon, Evocazione di farfalle
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I
Non voglio vivere come vivono i ciechi che pregano il sole senza averlo visto e credono che Dio sia il raggio che li carezza saggiandone tepore morbidezza e languore. Temono il silenzio come temono il rumore sentono nel vento lo schiaffo della natura e nella tempesta la condanna di Dio. Toccano l’acqua come un essere immondo che striscia e li avvolge con viscide spire e sentono la terra un rifugio sicuro un guanciale per ascoltare i battiti del cuore.
Non voglio vivere come vivono i sordi che percepiscono il cuore toccandosi il polso e guardano le vene sul dorso della mano chiedendosi se il sangue è un fiume che rumoreggia. Vedono nelle labbra della persona amata schiudersi il vermiglio sull’alabastro dei denti e non sapranno mai se la luce che brilla è un sorriso schietto o un’ironica smorfia. Guardano all’orizzonte tra fiammate di nuvole il sorgere del sole, l’uragano che nasce e divampa negli occhi assetati di musica il desiderio ansioso di una memoria antica.
Non posso vivere come vivono i muti che hanno la gola cieca e sorda la bocca che assorbono come spugne il soffio della vita e si gonfiano come otri senza vie di fuga. Zampogne senza bordoni, tamburi senza suoni, eseguono con i gesti pentagrammi di musiche e parole che mai leniranno il cuore.
II
Posso chiudere gli occhi come fanno tutti i poveri al mondo, i cenciaioli, con orecchie tappate e labbra strette per non sentire le voci che osannano al Dio che tutto suo malgrado perdona, per non gridare il dolore che morde i sogni acciambellati in fondo alla coscienza.
Voglio morire come muoiono coloro che vivono spingendo carrelli della spesa colmi di stracci e di speranze miserabili. Coloro che, lungo strade di scaffali vuoti, lungo corsie di case spente e tutte uguali, annegano nel vino che fa dolce il rossore piagnucoloso delle loro facce.
Chiuderò gli occhi, serrerò le orecchie. Con le viscere piene del fuoco del liquore mi stenderò supino lungo spiagge deserte e guarderò le stelle chiuse nel mio cuore. Ascolterò le onde che mi lambiscono la mente e quando all’orizzonte s’infiammeranno i soli chiederò alle farfalle, vanesse, colie, brintasie, di coprirmi gli occhi e da dolci amiche bere le lacrime che scorreranno involontarie sul mio viso.
Neu Musik Duett “Noise” ℗ 2022 Guido Mazzon, keyboard Marta Sacchi, keyboard Voce recitante, Luigi Maria Corsanico
Dal commento di Marcello Comitini:
“…lo scenario di una taverna frequentata da ubriachi che sentono rinascere nel vino i loro rumorosi e invadenti incubi. Solo l’Odio non cede all’abbraccio inebriante e smemorante del vino, ma da esso trae maggiore lucidità per compiere il tuo terribile mestiere. “
SPLEEN E IDEALE
LXXI LA BOTTE DELL’ ODIO
L’Odio è la botte delle pallide Danaidi: la folle Vendetta dalle braccia rosse e forti inutilmente versa nelle sue tenebre vuote secchi colmi di sangue e lacrime di morti.
Il Demonio in segreto buca quelle tenebre, e da lì sfuggono millenni di sudori e di sforzi anche se l’Odio rigenerasse le sue vittime e per sanguinare, galvanizzasse i loro corpi.
L’Odio è un ubriaco in fondo a una taverna che sente la sete rinascergli dal vino e moltiplicarsi come l’idra di Lerna
– Ma i bevitori felici conoscono chi li doma, mentre l’Odio è votato alla penosa sorte di non crollare mai sotto la tavola.
“Un invito all’ascolto attento e partecipato. Cosa potrei aggiungere? Nulla! Il commento che Luigi Maria Corsanico ha scritto in calce alla sua lettura, dice molto più di quanto io possa dire. “
Marcello Comitini
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Una lirica rivolta ai più diseredati, ai più abbandonati, ai più sfruttati. Cosa se ne farebbero costoro di parole che non sono le loro? “Rivolta”: versi che usano le parole più aspre, dal suono più duro che tornano a capo solo per porre in risalto un concetto, isolandolo, affinché la mente del lettore si trovi di fronte a un precipizio che lo faccia riflettere se andare avanti o abbandonare. Dunque nessun verso dolce in questo poema. Saremo costretti a guardare dentro noi stessi. con uno sguardo severo, giudicante, senza possibilità di assoluzione. Leggendo questi versi ho smesso di parlare di me, parlo di loro. E se non parlo di loro, rimane sempre nella mia voce una traccia aspra della loro presenza, del loro contagio, delle loro unghie, della loro umiliazione, della loro confusione mentale, del loro dolore.
Luigi Maria Corsanico
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RIVOLTA
1
Ho lasciato il mio posto, vecchia tana nel cuore troppo tranquillo della città addormentata e passando scalzo su sputi e cicche accese e terra e pietre, coprendo le mie orecchie fra il rumore di vagoni blindati e pieni di uomini di donne di fanciulli soffocati dai ventri stretti l’uno all’altro, ho cercato i sobborghi pullulanti di case sudice e vecchie e di brandelli variopinti a festa legati a fili di miseria. Ed ho guardato dentro le finestre, ho varcato le soglie come gole d’infamia, ho rivoltato il mio sguardo nel buio impenetrabile. Ho udito lamenti e pianti, e grida e bestemmie di donne che sputavano sangue sul giaciglio di terra. « Abbiamo ancora da dire troppe cose per piegare le braccia e socchiudere gli occhi nell’attesa della morte dolcissima che sale su dalle gambe lentamente e il corpo inaridisce. Abbiamo da gridarvi troppe cose coi nostri corpi stesi lungo i muri a grappoli come mosche appiccicose sui vostri occhi socchiusi. Ma non vedete, non udite pietà che domandiamo movendo appena le labbra. A chi la colpa? Forse delle vesti che vi ricoprono il corpo mentre noi nudi fin dove la vergogna si dibatte umiliandosi alla vostra pietà, ascoltiamo i lamenti del compagno e affrettiamo la morte per rendere la nostra carne pane, e vino il sangue che ci fermenta nelle vene. Non parleremo. Non scriveremo ai muri grida di libertà e di odio. Non chiederemo pietà. Ma chi oserà dimenticare i nostri corpi, chi oserà guardarci in fondo agli occhi il vuoto che la fame sbrindella dentro i ventri? Voi tremerete come canne e volgerete altrove il capo passando. Attenderemo come rovi cresciuti all’improvviso o gramigna dei vostri campi inariditi che inciampiate nei nostri corpi le vesti ». Ho lasciato il mio posto vecchia tana nel cuore troppo tranquillo della città addormentata. Ho bestemmiato battendo il capo tra le mani, ma mille e mille mani nere, aspre di odio inaridito hanno fatto una schiera dentro me.
Chiudete i pugni, via
gridate al cielo spasimi di febbre
non domata. Non vogliamo
preti che non credono in Cristo,
capi che urlano dall’alto,
servi che strisciano tra i piedi
né vacche grasse dagli occhi
inumiditi dal languore.
Filosofi, avete detto parole
a sufficienza, ora vi mostriamo
pugni serrati dal furore. Che temete?
L’alterità del mondo è la vostra paura
ed io ho lasciato il mio posto
per farvi tacere almeno questa volta.
In questa schiera di mani ho ritrovato
i miei padroni e i miei servi,
i miei compagni, gli amici
compagnia di straccioni, di assassini
per miseria di puttane,
di ladruncoli bambini dagli occhi
impauriti. Guai a voi scribi
e farisei ipocriti; guai a voi
falsi Cristi inchiodati in croci d’oro.
Abbiamo lasciato il nostro posto
e spaccheremo il cuore troppo tranquillo
della città addormentata.
Ed io che canto invano,
invano per tutta la notte, ora una nenia
di uomini stanchi odo sotto la pioggia
di nubi liquefatte alle speranze,
ora è tempo di correre buttare via
i miei versi dolciastri e a piedi nudi
correre sotto quella pioggia.
Eccomi, fratelli, eccomi schiavi
antichi delle nuove leggi,
io vi darò speranze che allontanino
la frusta dei giorni senza fine.
Non sopportate più voi siete
liberi da ogni male futuro
ed il presente io prenderò con me
trasfigurato in versi che martellano
le carni degli ipocriti.
Non canterò più, luna,
non canterò più, notte di silenzio,
ora il fragore delle fruste
che battono le carni dei fratelli
sono assordanti grida alle mie orecchie,
e il canto si è spezzato nella gola.
Urlerò, con mani levate a crocifiggere
il segno del comando. E mi farò
schiavo per sciogliervi le catene
servo per dare a voi il comando
ucciso per dare a voi la vita.
Né importano le piaghe. Aspri versi
tuoneranno dal mio cuore in uragano
per naufragare gli stolti ed i sapienti.
Sono sceso alla radice del dolore
come in fondo alla gola
di una oscura miniera abbandonata.
Ho scavato con disperazione assurda
sempre più al fondo della vita
per liberare l’urlo che freme
con fragore di tuono nella pioggia.
Là fuori, sepolti sotto un sasso
ho lasciato le mie vesti
ed il mio nome tra la folla
che sorride sazia di ogni giorno.
Nel buio sono sceso come cieco
protendendo le mani
e giunto al fondo – irraggiungibile fondo
dove mai nessuno è sceso –
fra sangue di omicidî, nell’odio,
fra terrori ed invidie fra vendette,
i bianchi grandi occhi di un fratello
morente.
E tu chi sei fratello?
Uomini maledetti sono sceso
nel profondo della vita per questo
spettacolo di morte? E ora io
vi guardo col disprezzo
che scarna il corpo del fanciullo.
Sono sceso alla radice del dolore
e ho visto un bimbo morente
nutrito dal vostro odio.
Che non muoia! I vostri ventri
stretti da panciotti, le vostre
grasse labbra inumidite e gli occhi
mostrerebbero le maschere beffarde
del vostro cuore roso già dai vermi.
Tutti voi siete mostri di cartone,
sorridenti pupazzi alle miserie
dei vostri fratelli disperati – ed è la vostra
disperazione, maledetti.
Cantate, oh si, cantate poeti del dissenso
rivestiti dalle piume del corvo.
Pregate anche, pregate, preti
nelle chiese illuminate dai ricchi
dove non è mai nato il Cristo
ma crocifisso grida dal dolore
«Abba perché mi hai abbandonato ?».
E voi filosofi costruttori di schiere
disumanizzate e schiavi degli occulti
imperi del denaro, vili servi
di un benessere falso e troppo facile,
frutto di vendette e di violenze,
gridate ancora, ancora a più alta voce
contro chi vi resiste e già vacilla
e già si arma la mano.
Sono sceso alla radice del dolore
e ho trovato un fanciullo protetto
da canti da preghiere da urla
ma morente.
Quante volte ipocriti avete crocifisso Gesù Cristo? Non una ma mille e mille e mille, e non su rozze tavole di legno. « Stendi le tue mani per piacere, il chiodo è d’oro ed entra sveltamente. E a lato non mettiamo due ladroni – troppo poco per te che sei Signore – ma migliaia di uomini di donne, di vecchi, di fanciulli, di bianchi e negri, rossi, gialli, prostitute di tutte le nazioni, ladri, assassini, truffatori, figli illegittimi ed adultere, falliti, zoppi ciechi sudici pieni di pidocchi e d’infiniti mali. Guarda, ad uno ad uno con le nostre mani li abbiamo acconciati per farti da corona. Che ci darai, Signore, in ricompensa ? ».
Lettura di Luigi Maria Corsanico (registrazione settembre 2019)
Erik Satie – Gnossienne No.4 Reinbert de Leeuw, piano
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In questa notte strana in cui tutto è illuminato dalla luce morente i contorni si dissolvono e la materia si scioglie. Da un camino lontano nella solitudine di un tetto disteso a coprire col suo pesante silenzio una casa, un fumo denso si alza e si sperde. Un luccio in un lago salato muove la bocca come un imbuto di gomma. Assorbe e risputa ciò che beve e svanisce nel grigio di un’acqua torbida. In questa notte il vento passa con le sue unghia adunche, strappa dai rami i frutti maturi li spinge lontano li lascia cadere sulla terra assetata. Muoiono. Ma i semi che il frutto nutre con il proprio sangue? Nascosti al riparo del vento nella loro invisibile perfezione di vita, sono la nostra vita futura Oh poterci credere, sperare che il vento si plachi che un germoglio si tinga di verdi speranze.
Samuel Barber – Adagio for Strings, Op. 11 (excerpt) Dover Quartet
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Lascio fare alla terra che dal suo grembo colmo di piacere dona nutrimento alle piante e agli animali agli uomini visioni di felicità future e a me, che cerco sulla pagina bianca le ostinate interrogazioni dei sensi e sulle false apparenze, l’impulso a trovare verità eterne, tracce d’immortalità perché tutto intorno appartiene alla vita e tutto sembra tornare a rinascere. Lascio fare alla vita. Che mi prenda pure a morsi e graffi a sangue il cuore, mi tolga ogni speranza, ogni caro affetto si accanisca sui ricordi, li spolpi sino all’osso mi scagli nel buio del dubbio e della sconfitta. Già lo so che lei appare lentamente come la luna dallo squarcio di donna simile a una notte illuminata a festa. Rischiara le membra del bambino che felicemente ignaro gioca con le ombre nate con lui. Fantasmi che la vita trasforma in dolori infiniti che piegano l’animo -anche il più forte – anche dell’uomo che parla d’amore e d’affari e finge che nelle sue vene non serpeggia il dolore. Ma so che a un tratto la luce si fa di sangue e sulla scia di una nuvola fugge in un tramonto inatteso. Come sa di umano il sangue della sera laggiù in fondo all’orizzonte! Come scivola dolcemente dalla cima dei monti sino alla valle verde di alberi dai frutti che marciscono sui prati sotto gli occhi di uomini sorpresi e inebetiti dal lungo inganno degli anni! Là passeggio a occhi bassi e la destra al cuore per trattenere quel che la vita dona e toglie perché tutto è suo. Tutto anche me stesso. Lo condivide soltanto con la morte. Lo fa rinascere nella terra.
Edgar Lee Masters Antologia di Spoon River / Il suonatore Jones Traduzione di Fernanda Pivano
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Ashokan Farewell by Jay Ungar Joe LaMay & Sherri Reese in concert at the Bainbridge Opry House in Bainbridge, NY.
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“Antologia di Spoon River, poesie di persone che narrano, esaminano, recriminano su errori e ingiustizie, su dolori e glorie fasulle, su inganni e amori infelici. Un piccolo villaggio che Edgar Lee Masters ha popolato di voci come di una grande metropoli appena addormentata che nel silenzio scopre tutte le proprie contraddizioni. E la traduzione della Pivano rende queste voci vive, e palpitanti nell’armonia della nostra lingua. Leggere quest’opera e meditare significa scavare e scoprire in noi quelle tare che affliggono il nostro essere umani. Non è questione di viaggiare o rimanere immobili, di rimpiangere o pentirsi, quanto piuttosto valutare il giusto peso della vita, fatta di scelte tra errori e ingiustizie, tra dolori e glorie fasulle, tra inganni e amori infelici. All’armoniosa traduzione della Pivano tu, caro Luigi, hai aggiunto quella della tua voce. Armonia accresciuta dalla tua scelta di leggere una poesia tra le meno gravose, una di quelle che, nel descrivere la varietà del vivere in mezzo a una varietà di interpretazioni della stessa realtà, sembra lasciare all’uomo un briciolo di libertà e forse di postuma serenità.
Per evitare di cedere al fascino di quest’opera, basta chiudere gli occhi e non vivere, ma soprattutto non pensare.”
Marcello Comitini
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La terra ti suscita vibrazioni nel cuore: sei tu. E se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca, per tutta la vita. Che cosa vedi, una messe di trifoglio? O un largo prato tra te e il fiume? Nella meliga è il vento; ti freghi le mani perché i buoi saran pronti al mercato; o ti accade di udire un fruscio di gonnelle come al Boschetto quando ballano le ragazze. Per Cooney Potter una pila di polvere o un vortice di foglie volevan dire siccità; a me pareva fosse Sammy Testa-rossa quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor. Come potevo coltivare le mie terre, non parliamo di ingrandirle – con la ridda di corni, fagotti e ottavini che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa, e il cigolìo di un molino a vento – solo questo? Mai una volta diedi mani all’aratro, che qualcuno non si fermasse nella strada e mi chiedesse per un ballo o una merenda. Finii con le stesse terre, finii con un violino spaccato – e un ridere rauco e ricordi, e nemmeno un rimpianto.